Intorno al 1585 il cortigiano ferrarese Orazio Ariosti, pienamente coinvolto nei dibattiti alle problematiche del poema eroico e alla questione della superiorità del Tasso su Ariosto, si accostò – dopo che il ben più celebre poeta «ebbe condotto a termine la Liberata» – alla realizzazione di un proprio poema cavalleresco, oggi comunemente conosciuto come L’Alfeo[1]. Interrompendo la narrazione dei fatti precedenti la conquista e la conversione della Norvegia per opera di Alfeo e del suo amore contrastato per Alvilda, l’autore espone in una ottava autobiografica (III, 65) la propria concezione circa il ruolo dell’arte figurativa manifestando la sua ammirazione per l’operato di Domenico Mona (1550 ca. – 1602)[2]:

Deh, s’have la pittura occulta forza
Pur d’estirpar dai petti accesi amore,
deh, quel che me sì crudelmente scorza
svelli con l’arte tua Mona dal core:
sai quel ch’in me l’accende e che l’ammorza;
opra per me ‘l pennello, opra il colore,
che s’otterrò d’amor per te vittoria,
rifrigerio i’ n’avrò, tu n’avrai gloria.

Per Ariosti non vi sono dubbi: la pittura di Mona, attraverso il colore e la forma, riesce a toccare profondamente l’animo dell’osservatore, estirpando anche dal cuore più crudele un «acceso amore» che si identifica come una «occulta forza» la quale si «esercita sui sentimenti, […] con ben precise finalità morali; un concetto che non si discosta dalle teorie sull’arte formulate e praticate nel clima controriformistico»[3].

Domenico Mona artista dei suoi tempi

Attraverso questo componimento, rimasto incompiuto per la scomparsa dell’autore nel 1593, ma particolarmente atteso dall’enclave intellettuale ferrarese, Mona entrava «nell’Olimpo encomiastico dei manieristi»[4], confermandosi come una delle personalità artistiche più conosciute e stimate della seconda metà del Cinquecento ferrarese. Uno straordinario successo derivato da tre prestigiose commissioni alle quali Domenico Mona adempie tra il 12 marzo 1579 e il 25 luglio 1581. In questi anni il pittore, imponendosi sulla scena locale, realizza un’ascesa artistica e sociale piuttosto celere, favorita da una considerevole presenza di cantieri, successivi allo sciame sismico del 1570 – 1573, tutti attenti ad assecondare quei profondi aggiornamenti tridentini caldamente consigliati dal nuovo episcopato di Paolo Leoni.

Fig. 1, Domenico Mona, Martirio di Sant’Agricola, 1579, Ferrara, Santa Maria in Vado

Fig. 1, Domenico Mona, Martirio di Sant’Agricola, 1579, Ferrara, Santa Maria in Vado

Dopo una formazione dalla difficile definizione cronologica presso la bottega di Giuseppe Mazzuoli detto il Bastarolo e la realizzazione della Pietà e angeli per l’altare della sagrestia capitolare della Cattedrale di Ferrara nel 1576, il pittore approda a Santa Maria in Vado grazie alla commissione di Giustiniano Contughi, segretario e cancelliere di Francesco d’Este, marchese di Massalombarda. Il 12 marzo 1579 il notabile ferrarese ottenne in giuspatronato, da parte dei canonici, l’ultima cappella della navata sinistra verso il presbiterio, fino a quel momento dedicata a Sant’Agostino, con la concessione inusuale di rinnovo dell’immagine[5]. Il prestigioso committente affida così al pittore la realizzazione di un Martirio di Sant’Agricola (fig. 1), in cui il nostro dà prova di una prima autonomia formale che si allontana da Bastarolo, introducendo il suo personale stile, duro e bizzarro, dalla critica successiva assai biasimato. L’opera, ritornata in loco, dopo il discutibile intervento di restauro che portò alla distruzione dell’altare Contughi nel 1933 circa, diede l’avvio ad un periodo assai florido per il pittore. Infatti a pochi mesi dalla consegna per la basilica mariana si vide commissionare da Padre Agostino Righini[6], religioso assai vicino alla corte estense, la realizzazione di due grandi tele (cm. 350 x 180) da collocare, accanto ad una Ascensione di Cristo di Nicolò Rosselli, sul nuovo altare maggiore della chiesa di San Francesco, restaurato a seguito dei danni causati dal sisma del 1570.  L’insigne prelato, Priore del convento ferrarese dei Frati Minori, incarica l’artista di realizzare una Resurrezione e una Deposizione nell’ambito dei massicci interventi sulla cappella maggiore, «da lui [Righini] fatta fare da fondamenti insino alla sommità perché la chiesa arrivava insino agli scalini di detta cappella e non più oltre, ove alli scalini stava la palla dell’altare Maggiore»[7]. La commissione francescana, portata a termine nel 1580[8], e che ben risponde alle intenzioni di grande esaltazione formale e drammatica tipiche del fare propagandistico e pragmatico richiesto dalla Controriforma, aprirà a Domenico la via già conosciuta di Santa Maria in Vado (fig. 2).

A fornirci le principali notizie su questo nuovo cantiere, sicuramente fino a quel momento il più impegnativo nella carriera del pittore, è Girolamo Baruffaldi informandoci che il Mona «affrontò le due gran tele del presbiterio d’ordine di Giovanni Battista Domenichi Canonico regolare di San Salvatore». L’erudito si esime però, come spesso accade nei suoi scritti, dal connotare l’evento da un punto di vista cronologico. Più puntuali sono Girolamo Merenda[9], che colloca la consegna del ciclo al 1581, e Tiburtio Bartoli[10] che, sub 1581, riporta ancora più accuratamente che «di notte [in Santa Maria in Vado] alli 25 luglio di questo anno furono finite le pitture e la suffitta [sic!] dell’altare grande di S. Maria in Vado pitture del Mona».

Fig. 2, L’interno della chiesa di Santa Maria in Vado

Fig. 2, L’interno della chiesa di Santa Maria in Vado

Il pittore diviene protagonista di uno dei cantieri più complessi degli ultimi anni di governo ducale, all’interno di un tempio oggetto di particolari attenzioni da parte del clero locale, in virtù della rinnovata centralità del tema eucaristico nella chiesa post conciliare: com’è noto, infatti, la basilica di Santa Maria in Vado era stata teatro il 28 marzo del 1171, giorno di Pasqua, di un particolare miracolo eucaristico. Durante la fondamentale fase liturgica denominata fractio panis, cioè dell’innalzamento e divisione in due o più particole dell’eucaristia, l’ostia assunse l’aspetto di vera carne sprizzando sangue al momento della suddivisione investendo la piccola abside dell’antica pieve. Dopo la straordinaria risonanza medioevale, il miracolo tornò ad essere oggetto di particolare attenzione all’indomani del Concilio, quando il prodigioso evento andava a confermare il quotidiano miracolo della transustanziazione. Lo spirito riformistico delle ultime sessioni tridentine, perseguito dal nuovo vescovo di Ferrara Paolo Leoni, profondo estimatore di San Carlo Borromeo ospite a Ferrara proprio nel 1580, trovò quindi nella basilica vadese terreno fertile per svilupparsi pienamente. Inoltre, Giovanni Battista Domenichi, prestigioso canonico, nonché ricercato intellettuale, era la migliore personificazione della Controriforma in città, ideatore di un raffinato programma di interventi volto ad aggiornare l’intera decorazione della zona presbiteriale con un altare maggiore fulcro nodale della celebrazione eucaristica, come ribadito dal Concilio nella sessione XIII (11 ottobre 1551). È in questo contesto che matura l’incarico a Domenico Mona, il quale trova in Domenichi, come accaduto pochissimi mesi prima con padre Agostino Righini, un committente attento ed esigente.

Qualche nota biografica su Giovanni Battista Domenichi

Riguardo le vicende biografiche di questo meritevole abate ferrarese, oltre alle già note testimonianze di Superbi e Antonio Possevini[11], appaiono fondamentali le parole del Reverendissimo Padre Fausto Braccaldi da Ferrara – teologo, predicatore e canonico nella stessa congregazione – il quale alla fine del 1594 cura l’ultima pubblicazione postuma di Padre Domenichi, edita a Reggio per i tipi di Hercoliano Bartoli. In queste Osservationi sopra il Sac. Testo della Santiss. Passione di N. S. conforme à i quattro evangelisti, padre Braccaldi inserisce, oltre alla propria dedica al futuro cardinale Alessandro d’Este e a quella del nipote di Domenichi (Gioseffo), un’interessante nota biografica, preziosa guida per la ricostruzione dell’operato del committente vadese.

Fig. 3, Frontespizio del volume Predica del Venerdì S.to fatta nell'arcivescovato di Ravenna. Dal rever. D. Giovan Battista Domenichi ferrarese canonico regolare della Congregatione del Salvatore, l'anno 1574, Ferrara 1592

Fig. 3, Frontespizio del volume Predica del Venerdì S.to fatta nell’arcivescovato di Ravenna. Dal rever. D. Giovan Battista Domenichi ferrarese canonico regolare della Congregatione del Salvatore, l’anno 1574, Ferrara 1592

Da questa si apprende che Giovanni Battista nacque nel 1537 a Ferrara, da una famiglia benestante ed onorata che lo educò fin da giovanissimo nei «buoni costumi, e nelle humane lettere», dimostrando una particolare propensione all’apprendimento[12]. All’età di diciotto anni «inspirato da Dio (dal quale viene ogni santo pensiero) si dispose di essere religioso, e pigliò l’abito de Canonici Regolari della Congregazione di San Salvatore, nella chiesa di Santa Maria del Vado della città di Ferrara, l’anno 1555»[13]. È qui che inizia la folgorante carriera di Domenichi che, diventato in seguito canonico, si diede allo studio delle Sacre Scritture divenendo un raffinato teologo, ma soprattutto un consumatissimo predicatore. Il religioso fu quanto mai importante in una diocesi come quella ferrarese ancora in ritardo rispetto alle nuove direttive tridentine sull’importanza dell’evangelizzazione. La sua straordinaria eloquenza e oratoria, capace di richiamare «intiere caterve di genti […] in qualunque luogo egli la parola del Signore evangelizzava»[14] spinsero la congregazione ad affidargli titoli e incarichi sempre più prestigiosi come «governi mezani»[15]. Secondo la testimonianza del Braccaldi, il nostro mantenne queste cariche per circa 23 anni, al termine dei quali, si ipotizza, le abbandonò a favore di maggiori responsabilità all’interno della congregazione. È intorno agli anni Settanta, infatti, che Domenichi raggiunse i primi successi al di fuori della diocesi ferrarese, divenendo il lungo braccio di un governo episcopale sempre più attivo nella catechesi, come dimostra la Predica del Venerdì S.to fatta nell’arcivescovato di Ravenna. Dal rever. D. Giovan Battista Domenichi ferrarese canonico regolare della Congregatione del Salvatore, l’anno 1574, stampata a Ferrara per i tipi di Benedetto Mammarello nel 1592 (fig. 3), durante i primi anni dell’episcopato di Giovanni Fontana[16].

A partire dalla fine della seconda metà degli anni Settanta, Domenichi assunse sempre maggiori responsabilità, tra le quali la carica di abate del convento di Santa Maria in Vado, là dove la sua carriera ecclesiastica era cominciata e dove il nostro lasciò l’unica sua commissione artistica nota. Ma l’esperienza di direzione e di committente per la basilica sede del miracolo del Preziosissimo Sangue durò poco, o venne per alcuni anni sospesa, poiché Domenichi è attestato nel 1582 come abate del monastero annesso alla chiesa di San Paterniano nella città di Fano. Il primo aprile di quell’anno, in occasione del centenario della concessione dell’abbazia ai Canonici Lateranensi, organizzò una suntuosa celebrazione in memoria di papa Sisto IV Della Rovere, benefattore dell’ordine e dell’abbazia: le ricchissime esequie sono ricordate da un’epigrafe collocata sulla parete sinistra del presbiterio della chiesa di Fano.

HOC. TE. SAXUM. HOSPES. MANET. ATQ. MONET.
XYSTUM. IIII. PONT. MAX. AVXISSE. PERCELEBRI. HOC.
TEMPLO. ET. COENOBIO. CAN. REG. D. SAL. QVI. NON. IN
GRATI. GRATIS. EIVS. MANIBVS. LITARVNT. MAGNO. AP
PARATV. ANN. CENT. EGRESSO. KAL. APR. M. D. XX. CII.
CVM. HVIC. MON. IOANN. BAPT. DOMINICVS. FERR.
ANN. GREG. XIII. X. ECCL. PRAEFVISSET[17].

Qualora l’iscrizione commemorativa non dovesse bastare a dimostrare la permanenza in territorio marchigiano dell’abate Domenichi, altra prova ne è il testo stampato a Pesaro da Girolamo Concordia nel 1584 e dedicato al Duca di Urbino, Francesco Maria II Della Rovere. All’interno delle Essequie celebrate per la f. memoria di Papa Sisto IIII oltre all’orazione funebre e alla consueta lettera dedicatoria, datata «Di Fano, il dì XXVIJ di Decemb. M.D.LXXXIII», il ferrarese allega anche una Lettera d’avviso dell’ordine tenuto nell’Essequie di papa Sisto IIII. Al reverendissimo padre Don Raffaele Campioni da Cento, Generale meritissimo de Canonici Regolari di Santo Salvatore: in essa, rivolgendosi direttamente al generale della sua congregazione, Domenichi descrive con estremo dettaglio «gli apparati, le decorazioni, i testi delle lapidi e dei cartigli messi in opera per la celebrazione»[18] realizzati da M. Gio. Brunazzi, affinché «V.P. Reverendissima sappia l’ordine tenuto in queste essequie, come questi giorni passati da Lei, ne fui ricercato, e possa anco (volendo) farne partecipi gli molto RR. Padri Visitatori suoi colleghi»[19].

Il motivo preciso del trasferimento dell’abate ferrarese in terra marchigiana è oscuro, ma è interessante notare come già nei decenni precedenti l’abbazia fanese avesse ospitato altri abati provenienti dal territorio estense come testimonia l’epigrafe «collocata sotto la monumentale cantoria dell’organo a ricordo della costruzione dello stesso promossa dall’abate Urbano da Ferrara nel 1563»[20]. Infine, La dedica del testo dell’orazione a Francesco Maria II Della Rovere, consorte di Lucrezia d’Este, alla quale Domenichi destinerà qualche anno dopo una nuova pubblicazione, porta ad avvicinare l’abate all’enclave che seguì la duchessa ad Urbino e a collegare l’abbazia di San Paterniano a doppio filo con il centro padano. Offre un’ulteriore testimonianza in tal senso anche la presenza, specie nei secoli successivi, di numerosi artisti ferraresi, tra i quali spicca il nome di Carlo Bononi, impegnato nel completamento seicentesco della decorazione del presbiterio di Santa Maria in Vado per cui il religioso ferrarese, intorno al 1580, tanto si spese.

La permanenza a Fano non fu però stanziale, come documenta la Predica della Sepoltura di Giesù Christo Nostro che reca nella lettera dedicatoria preziose informazioni al riguardo: vi si legge infatti la formula «di Santa Maria del Vado in Ferrara il dì 6 di Decembre 1592. Di V. S. Molto illustre, Servitore divotissimo. D. Gio. Battista Domenici, Prevosto di San Marco di Reggio». In questa occasione, l’abate ferrarese, diventato in epoca imprecisata prevosto della chiesa di San Marco a Reggio Emilia, pubblica, dopo circa dieci anni – ancora una volta a Ferrara per Mammarello – la predica tenuta nel 1583 al cospetto di Ercole Tassoni, dedicandola al fratello di quest’ultimo, Ottavio.

L’interessante dedica e le precise parole del canonico («Io voglio […] riconoscere con ardente gratitudine i molti favori, e gratie, che in diversi tempi, e particolarmente in Roma ho ricevuti da lei»[21]) ci spingono a ipotizzare anche un periodo di permanenza a Roma. Non si dimentichi che il 25 novembre del 1583 l’Arciconfraternita del Preziosissimo Sangue di Santa Maria in Vado (fondata e accresciuta anche grazie ad Ercole Tassoni) si riunì con l’Arciconfraternita del Gonfalone di Roma, come ricorda lo stesso Domenichi nella lettera dedicatoria dei Sermoni sopra le sette parole che disse Christo S. N. in croce rivolta a Lucrezia d’Este nel 1592.

L’opera appena citata, la penultima pubblicata dall’abate in persona, permette di chiarire cronologicamente l’ultima fase della vita del Nostro. Non ci è infatti dato di sapere quando Giovanni Battista lasciò Fano, ma la sua presenza come firmatario al Regolamento del 1590 di Giovanni Fontana concernente la vita delle monache nella diocesi e la lettera dedicatoria dei Sermoni sopra le sette parole che disse Christo S. N. in croce datata e firmata 16 Marzo, 1592[22], ci forniscono i termini post quem per il suo ritorno a Ferrara e per la sua nomina di Priore di Santa Maria in Vado, incarico che manterrà fino al 6 dicembre dello stesso anno. Sarà però a Reggio, dove si era trasferito per adempiere alla sua carica di prevosto, che, usando un’espressione cara alla tradizione cattolica di cui Domenichi era «vigilantissimo» tutore[23], tornerà all’ovile celeste il 20 luglio 1594.

Il Reverendissimo padre Fausto Braccaldi, terminando la sua nota biografica, qui utilizzata come fondamentale guida per la ricostruzione biografica appena esposta, fornisce al lettore un ultimo interessante spaccato dell’ecclesiastico, rivelando che egli era assai apprezzato e stimato dall’ambiente universitario ferrarese:

hebbe famigliarità, e gratia con molti nobilissimi Prencipi, e Illustriss. Prelati di Santa Romana Chiesa, ma in particolare fù gratissimo al Sereniss. Sig.: D. Alfonso da Este Duca di Ferrara, e secondo di questo nome: e al Sereniss. Sig. D. Francesco Maria secondo, Duca sesto di Urbino […] e dall’Illustrissimo Cardinale Girolamo della Rovere e Arcivescovo di Turino era si teneramente amato, che se quel Signore havesse già mai vestito il Santissimo manto di Pietro, si poteva sicuramente sperare che gradi sopremi, e dignità grandissime gli havrebbe dato, come quello che benissimo conosceva la sua bontà, e valore[24].

Superbi nel 1620 aggiunge che Domenichi, onorato di prelatura e due volte visitatore della congregazione, avrebbe per straordinaria modestia allontanato da sé incarichi di alto prestigio, come quello di Generale dei Canonici[25].

Domenichi committente di Mona

All’inizio dell’ottavo decennio del Cinquecento Domenichi diviene l’intelligente regista di una corposa campagna di adeguamento decorativo della zona presbiteriale di Santa Maria in Vado, nella quale Domenico Mona assurge a principale esecutore. Le fonti analizzate e la ricostruita biografia dell’abate ferrarese ci consentono di comprendere come i due grandi teleri per le pareti del presbiterio vadese raffiguranti la Natività di Maria Vergine (fig. 4) e la Natività di Cristo (fig. 5), nonché la grande tela del soffitto con l’Assunzione di Maria Vergine (fig. 6), tutte opere di Domenico Mona, esprimano al meglio i dettami della colta commissione.

Un ciclo alla cui base risiedono l’inventiva e la volontà di un ecclesiastico dalla straordinaria cultura, nonché eminente teologo assai vicino ai nuovi dettami tridentini.

Domenichi chiedeva a Mona di operare su un formato monumentale, particolarmente congeniale al pittore «per lo più solito a fare quadri di gran mole»[26]; lo scopo era quello di sottolineare, dopo il Concilio di Trento, la centralità della zona presbiteriale come “casa” della mensa eucaristica e, al contempo, di dare forma al concetto medievale di Biblia Pauperum, creando «un discorso per immagini impostato su codici formali bassi, su modalità che aspirano alla comprensione»[27] da parte di un pubblico più vasto possibile. In linea, dunque, con la sessione XXV (3-4 dicembre 1563) del Concilio nella quale vennero emanati alcuni decreti sulla legittimità dell’uso d’immagini sacre, che posero particolare accento proprio sul loro ruolo didattico come mezzo «per istruire e confermare nei dogmi della fede»[28].

Secondo gli atti della visita apostolica di monsignor Maremonti del 13 settembre 1574, la basilica gravemente danneggiata dalle scosse telluriche del 1570 e da quelle di minore entità e assestamento documentate nei quattro anni successivi, minacciava rovina e richiedeva urgenti restauri architettonici. Gli interventi interessarono principalmente la parte alta dell’edificio di culto e i gravi danni subiti determinarono la costruzione del soffitto a finti lacunari e la decisione di sostituire la cupola, gravemente compromessa dal crollo.

Non ci è dato di sapere quale fosse e in cosa consistesse l’allestimento della zona presbiteriale prima dell’evento sismico, ma possiamo ipotizzare che già a metà del quinto decennio del cinquecento i canonici di Santa Maria in Vado fossero impegnati un complesso aggiornamento decorativo. È infatti in quegli anni che Camillo Filippi consegna la sua Annunciazione con San Paolo per l’altare maggiore della basilica, commissionata con ogni probabilità nel 1552 da padre Jacopo Lavezzoli, detto Lebezio, (Ferrara 1510 – 1583) predecessore di Domenichi al ruolo di priore del monastero vadese[29].

Fig. 6, Domenico Mona, Assunzione di Maria Vergine, 1580-81, Santa Maria in Vado

Fig. 6, Domenico Mona, Assunzione di Maria Vergine, 1580-81, Santa Maria in Vado

Proprio come Domenico Mona, Camillo Filippi (forse già in collaborazione con il figlio Sebastiano) è guidato dalla colta mano di un canonico dallo straordinario spessore culturale, generale dell’Ordine dal 1560, che «certamente ebbe parte importante nell’impostazione del soggetto della pala»[30]. Lavezzoli dovette affidare a Filippi la realizzazione di una campagna decorativa forse gravemente danneggiata dal successivo terremoto. Nessuna fonte, tra quelle fino ad ora analizzate, permette di comprendere gli effettivi danni alla zona presbiteriale, ma il sisma dovette sicuramente intaccare le decorazioni e le opere dell’intera basilica, come ben dimostrano alcuni documentati interventi di restauro operati da Sebastiano Filippi[31]. Dopo il 1574 Bastianino venne chiamato ad operare anche sulla pala paterna, dove realizzò un vero e proprio aggiornamento dell’opera che culminò nell’aggiunta delle bandelle decorate con putti. Una revisione forse dettata dal nuovo progetto decorativo ideato da Giovanni Battista Domenichi da poco diventato abate di Santa Maria in Vado. Il prelato, ponendo sulle due pareti del presbiterio, a sinistra e a destra della mensa, le due tele di Domenico Mona raffiguranti la Natività della Vergine e la Natività di Gesù Cristo, sembra creare un vero e proprio racconto, precedente e successivo, all’avvenimento dell’Annunciazione. La terza tela invece, raffigurante l’Assunzione di Maria Vergine[32], viene incastonata nel soffitto che sovrasta l’altare maggiore, divenendo così la logica conclusione del racconto della vita mariana, circondata nella parte alta delle pareti di sostegno, da otto massicce figure ad affresco, sempre di Domenico Mona, raffiguranti sibille e profeti.

Attraverso un linguaggio pittorico che si avvicina in un sorprendente crescendo a quello veneto di Tintoretto, Palma il giovane e dei Bassano, Mona cala le scene in una reale quotidianità che trova le sue migliori concretizzazioni nei volti degli abati in secondo piano a destra tra gli astanti nell’Assunzione (forse, tra loro, un ritratto di Domenichi), nelle vesti lacere e nei nerboruti corpi dei pastori dell’«oscurissima notte» della Natività di Cristo, o nel prezioso brano di natura morta del cestello, posto al limitare della composizione della Nascita della Vergine e «capace di rievocare al pubblico tutta la ‘verità’ compresa nel sacro evento così come vogliono i dettami pittorici della Controriforma»[33]. Quella controriforma di cui Domenichi e Mona, così strettamente in sintonia, riescono a comprenderne il senso pieno, divenendone straordinari interpreti e realizzatori.

Note

[1] O. Ariosti, L’Alfeo, a cura di G. Venturini (Deputazione Provinciale Ferrarese di Storia Patria, Serie Monumenti, vol. VII), Ferrara 1982, p. 6. Il presente articolo nasce in seguito alla tesi triennale Per Domenico Mona: i cicli pittorici di Santa Maria in Vado e di San Paolo, discussa nell’a.a. 2015/2016, corso di laurea in Storia e Tutela dei Beni Culturali, Dipartimento dei Beni Culturali: archeologia, storia dell’arte, del cinema e della musica, Università degli studi di Padova, relatrice prof.ssa Vittoria Romani. Si è qui deciso di approfondire solo uno degli aspetti fuoriusciti dalla precedente ricerca condotta sotto l’attenta guida della prof.ssa Romani che ringrazio ancora vivamente.

[2] Nonostante l’abate Girolamo Merenda nel 1595 – 1597 citi l’artista nel suo Elogio delle cose di Ferrara (Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea [d’ora in poi BCAFe], Mss. Cl. I 107) e, l’anno successivo, Marco Antonio Guarini nel Diario di tutte le cose accadute nella nobilissima città di Ferrara… (1598 Modena, Biblioteca Estense [d’ora in poi BEMo], Mss. α.H.2.16) faccia lo stesso, permane attualmente l’incertezza sulla corretta lezione del nome: secondo A. Superbi (Apparato de gli Huomini illustri della Città di Ferrara…, Ferrara 1620, p. 127), G. Baruffaldi (nella versione manoscritta de Le vite de’ più eccellenti pittori, e scultori ferraresi, 1702, BEMo, Mss. γ.H.2.29-31, Parte prima, c. 145r) e M. Oretti (Aggiunta di notizie di molti Professori…, 1785 circa, Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio [d’ora in poi BCABo], Ms. B 136, c. 127 [n. 40102]) il cognome del pittore sarebbe Monna, che si trasforma in Mona nelle note realizzate da Boschini, annotatore del Baruffaldi, nell’edizione ferrarese del 1844-46 (ed. 1846, II, p. 5 nota). Attestato è anche Monio (G.A. Scalabrini, Memorie istoriche delle chiese di Ferrara…, Ferrara 1773, p.12), ma si è qui deciso di seguire la scelta compiuta da Giuliano Frabetti nel 1978, coadiuvati dalle precise parole di L.N. Cittadella (Notizie relative a Ferrara per la maggior parte inedite ricavate da documenti, Ferrara 1864, p. 617): «è inutile la questione sul vero cognome del Mona, dacchè egli stesso in atti originali si firmò Domenico Mona».

[3] Come osservava G. Frabetti, L’autunno dei manieristi a Ferrara, Milano 1978, p. 20.

[4] G. Frabetti, L’autunno dei manieristi a Ferrara, Milano 1978, p. 61.

[5] Il rogito testamentario con cui Giustiniano Contughi ottiene in giuspatronato la cappella in questione (G. Cavallini, Omaggio al sangue miracoloso che si venera nella basilica parrocchiale di Santa Maria del Vado in Ferrara, Ferrara 1878, pp. 526-529) chiarisce con limpidezza come la nuova concessione preveda il cambiamento del santo intestatario. Cavallini riporta inoltre, sempre in riferimento alla cappella «Decima Quinta» di Santa Maria in Vado, l’indice del «Catasto 6° nel libro secondo archiviale, pag. 157, n. 81», in cui si afferma che: «Justiniano quondam Hieronymi Marij de Contugis, Dominus Sabastiuanus Guicciardinus de Cento Pior de Vado cum Canonica capitulariter congregata ressignat Capellam sub invocatione Sancti Augustini (quae hodie dicitur sancti Vitalis et Agricolae) continguam Capellae Alphonsi comitis de Trottis, ac confinantem a tergo cum Capella sub invocatione S. Homoboni. Recognitionis ac gratitudinis solidorum 76 pro scuto. Et hoc, salvo jure Legati olim facti ab ipso Hieronymo Mario de libris marchesanis 12 annualibus ipsi Ecclesiae de Vado, ut in hoc Catasto n. 20 – Rog. Jacobus de Comitibus die 12 Martii 1579» deducendone che «il quadro che adornava questa cappella, denominata di S. Agostino, fu senza dubbio rimosso dalla familia Contughi». La presente attestazione ritengo non si scontri con il documento pubblicato da Anna Valentini (A. Valentini, Sebastiano Filippi e Antonio Goretti: rapporti tra le arti a Ferrara alla fine del Cinquecento, “Musica e Figura”, n. 1, 2011, p. 132), risalente al terzo decennio del XVII secolo, quindi posteriore a quello riportato da Cavallini, in cui la cappella viene ancora identificata come «l’altare di santo Agostino […] delli heredi del Signor Justiniano Contughi». Il documento in questione attesta la permanenza nella tradizione del precedente santo dedicatario e comprova la possibilità di acquisizione del giuspatronato delle Cappelle e del successivo cambio di intitolazione, proprio come fece Antonio Goretti, sempre a Santa Maria in Vado, dedicando la cappella non più alla Vergine ma a Santa Cecilia, di cui commissionò al Bastianino la raffigurazione.

[6] Padre Agostino Righini, divenuto francescano nel 1486 (A. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino, 1895, II, p. 265, nota 3), morto a Ferrara il 25 settembre 1583, era consigliere spirituale di Ercole II prima e di Alfonso II poi, insigne teologo dell’Ordine dei Frati Minori francescani e amico personale di Torquato Tasso.

[7] A. Superbi, Brieve compendio dell’origine et accrescimento della Chiesa e Convento di Ferrara di San Francesco… (1633), BCAFe, Ms. Cl. I.164, cc. 5-6.

[8] È Baruffaldi a fornirci l’indicazione cronologica del 1580 affermando che: «I due laterali furono fatti circa l’anno 1580 per ordine del P. Agostino Righini Min. Conventuale e predicatore, anzi insigne benefattore di quella sontuosissima chiesa già guastata dal gran terremoto l’anno 1570»; l’annotatore del Baruffaldi nella vita di Nicolò Rosselli (cfr. Baruffaldi, Vite op. cit., vol. I, p. 410 nota 1) in riferimento all’Ascensione di quest’ultimo, riconferma la datazione aggiungendo che «fu fatto quel quadro [l’Ascensione] per palla dell’altare maggiore, e nel 1580 furono posti a casi due quadri del Mona […]». Il ciclo francescano si arricchirà solo nel 1583 di una Ascensione di Cristo dipinta dal Mona, ma forse già ideata insieme alle altre due tele.

[9] G. Merenda, Memorie storiche di Ferrara di Girolamo Merenda… (ante 1603), BEMo, Ms. α.P.4.6, c. 61v.

[10] T. Bartoli, Ferrara compendiata sotto gli Estensi o pure historie della Città e Stato di Ferrara… (1606-1609), BCAFe, Ms. Cl. I 615, fasc. 23°, c. 19 v.

[11] Superbi, Apparato cit., p. 50; A. Possevini, Apparatus sacer ad scriptores Veteris & Noui Testamenti…, vol. I, Venezia 1608, p. 822.

[12] G.B. Domenichi, Osservationi sopra il Sac. Testo della Santiss. Passione di N. S. conforme à i quattro evangelisti…, Reggio Emilia 1594, p. VII.

[13] Ibidem.

[14] Op. cit., p. VIII.

[15] Ibidem.

[16] L’opera, sebbene redatta diversi anni prima, è dedicata a Giovanni Fontana, successore di Paolo Leoni a partire dal 6 agosto 1590 e presenta sul frontespizio lo stemma dell’episcopo con i santi patroni della diocesi ferrarese.

[17] Iscrizioni ed epigrafi, in G. Volpe (a cura di), Il complesso monumentale di San Paterniano a Fano, dalle origini agli ultimi restauri, Fano 2010, p. 49. Il testo in questione interpreta l’epigrafe traducendo il nome del committente come Giovanni Battista Domenico Ferri. Credo invece che il FERR. sia da intendere più correttamente come l’abbreviazione di FERRARIENSIS, riferito al precedente nome di Giovanni Battista Domenichi.

[18] G. Volpe, Solenni cerimonie e doni preziosi, in Volpe (a cura di), Il complesso monumentale cit., p. 93.

[19] G.B. Domenichi, Essequie celebrate per la la f. memoria di Papa Sisto IIII…, Ferrara 1584, p. 9.

[20] Iscrizioni ed epigrafi cit., p. 50.

[21] G. B. Domenichi, Predica della Sepoltura di Giesù Christo Nostro, Fatta nella Sala maggiore della venerabile Confraternità della Morte in Ferrara, dal R.P. Don Gio: Battista Domenichi Ferrarese canonico regolare della Congregatione del Salvatore…, Ferrara 1593, p. IV.

[22] L. Paliotto, Giovanni Fontana. Vescovo di Ferrara (1590 – 1611), Ferrara 2002, p. 277; «da Santa Maria del Vado adi 16 Marzo, 1592. DiV. A Sereniss. Humuliss. e obligatiss. Ser. D. Gio: Battista Domenichi Priore di S. Maria del Vado» in Sermoni sopra le sette parole che disse Christo S. N. in croce, con un sermone nel fine sopra il santiss. misterio della messa. Fatti nella chiesa di Santa Maria del Vado di Ferrara dal R. P. D. Gio: Battista Domenichi Ferrarese Priore, per l’Oratione delle 40 hore la Domenica delle Palme…, Ferrara 1592, p. IV.

[23] G.B. Domenichi, Osservationi sopra il Sac. Testo della Santiss. Passione di N. S. conforme à i quattro evangelisti…, Reggio Emilia 1594, p. IX.

[24] Ibidem.

[25] A. Superbi, Apparato cit., p. 50.

[26] G. Baruffaldi, Le vite cit., vol. II, p. 15. È da segnalare che secondo il Baruffaldi, Mona eseguì affreschi in Castello, sulla «porta del rivellino verso le vecchie pescherie» e in San Domenico, nella Cappella del Rosario su commissione Bevilacqua-Bentivoglio.

[27] G. Sassu, Le decorazioni pittoriche di Santa Maria in Vado, in Sassu e Scafuri, Le chiese di Ferrara cit., p. 10.

[28] P. Prodi, Ricerca sulla teorica delle arti figurative nella Riforma Cattolica, Bologna 1984, p. 87.

[29] A. Pattanaro, Camillo Filippi. «Pittore intelligente», Verona 2012, p. 101.

[30] Ibidem.

[31] V. Romani, cat. n. 342, pp. 299-300, in A. Ballarin, Dosso Dossi. La pittura a Ferrara negli anni del ducato di Alfonso I, Regesti e apparati di catalogo a cura di A. Pattanaro e V. Romani con la collaborazione di S. Momesso e G. Pacchioni, Cittadella (Padova) 1994-1995, 2 voll.

[32] Seppur sicuramente completata insieme alle due opere in precedenza citate (come ben dimostrano le testimoniante di T. Bartoli, Ferrara compendiata, op. cit., 1606-1609, BCAFe, Ms. Cl. I 615, fasc. 23°, c. 19v, e G. Merenda, Memorie storiche cit. (ante 1603), BEMo, Ms. α.P.4.6, c. 61v) non è detto facesse parte di un’univoca ordinazione «coi quadroni da parete, che, soli, furono commissionati dal Domenichi» (Frabetti, L’autunno cit., p.73.), come ci ricorda chiaramente il Baruffaldi (Baruffaldi, Vite cit., vol. II, p. 14).

[33] J. Bentini, Il restauro di due tele di Domenico Mona in S. Maria in Vado, “Musei ferraresi. Bollettino annuale”, 7, 1978, p. 61.

Pubblicato su “MuseoinVita” | 3-4 | giugno-dicembre 2016