Questo articolo (pubblicato per la prima volta in Il più dolce lavorare che sia: mélanges en l’honneur de Mauro Natale, sous la dir. de F. Elsig, N. Etienne, G. Extermann, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana Editoriale 2009, pp. 33-37) costituisce la prima parte di un più ampio studio sull’opera del Museo della Cattedrale di Ferrara. Viene qui ripubblicato con lievi integrazioni. La seconda “puntata” è reperibile qui, sul numero 2 di “MuseoinVita”.

Fra i marmi del Museo della Cattedrale di Ferrara che non provengono dalla chiesa madre cittadina ve n’è uno il cui carattere erratico assume contorni alquanto misteriosi. Si tratta del bassorilievo (fig. 1) raffigurante la Madonna col Bambino che reca in basso l’ermetica firma: hoc opus feci / t antonio mas[…] / q[uondam] petro de vene / tis depluribus / et artis. La qualità discontinua ha forse contribuito alla sua scarsa fortuna critica e solo di recente l’opera è stata riproposta da chi scrive nel contesto della mostra sull’età di Borso curata da Mauro Natale[1].

Eppure, a causa della sua singolarità espressiva, frutto del contrasto del tutto atipico tra la traballante, quasi sconnessa, concezione figurativa dell’artista e l’apprezzabile perizia tecnica nella disciplina del bassorilievo, essa appare meritevole di approfondimento. E ancor di più perché molti elementi – la cornice floreale che segna tre quarti del perimetro, l’intrecciarsi di personaggi, l’opulenza rappresentativa che rigonfia la materia – testimoniano della sua indissolubile appartenenza alla cultura figurativa che nasce con la Bibbia di Borso e si afferma a Ferrara nel corso del settimo decennio del Quattrocento. Difficile immaginare qualcosa di più “profano e ornato” (per riprendere la definizione longhiana) di questa aspra Madonna che appare realizzata impiegando quel linguaggio «fantasioso e talvolta ossessivo che caratterizza la produzione artistica del periodo borsiano», di quel codice espressivo che investe «non solo la pittura ma anche i più svariati campi tecnici»[2].

E in questa sorta di pagina miniata tridimensionale, il primo duca di Ferrara non è solo evocato in spirito ma effigiato in basso a sinistra, seppur in una poco consueta declinazione votiva.

Che l’impacciato scultore abbia qui raffigurato Borso e non Ercole I, come si è sostenuto talvolta, è fuor di dubbio se solo si guarda allo stemma riprodotto in basso: si tratta di quello borsiano e non di quello ercoliano, caratterizzato, invece, dalla presenza delle chiavi pontificie simbolo della rinnovata investitura di Ferrara da parte di Sisto IV nel 1474[3].

Se questa presenza così marcata faccia di Borso il committente dell’opera è cosa logica da pensare ma difficile da stabilire, anche perché egli appare accompagnato, dall’altro lato della scena, da un personaggio apparentemente più giovane, con le braccia incrociate, gli occhi chiusi, il capo reclinato e il mantello corto in uso nelle corti padane. Quale che sia l’ambito generativo di tale opera, esso troverà “ambientazione” nell’evidente rapporto che lega Borso al suo cortigiano. Difatti, l’opera sembra testimoniare il rapporto tra un “vivo”, Borso, ed un “morto”, il cortigiano. Purtroppo lo scudo araldico situato al di sotto non reca alcun segno né scultoreo né pittorico che aiuti a decifrarne l’identità, così come non appare possibile riconoscere il cortigiano tra personaggi che affollano quel clamoroso “ritratto di corte collettivo” che è il registro inferiore di Schifanoia, anche se qualche tentativo si può effettuare, ora che ne è stato avviato un riconoscimento anagrafico[4]. I dati storici ci consegnano un’unica morte celebre prima di quella di Borso, quella di Ludovico Casella, le cui fattezze però non paiono essere compatibili con quelle riportate dal nostro scultore.

Pochi dubbi, invece, sulla valenza cristologica dell’assetto iconografico che contraddistingue il brulicante sfondo, mentre la cornice floreale reca le consuete (per la miniatura) scene dell’Annunciazione con Dio Padre nel mezzo, rese con l’abilità del cesellatore.

Due figure di dimensioni più grandi segnano la zona mediana della cornice: una reca sul capo una corona, l’altra suona un flauto doppio. Si è provato a leggere queste figure come rappresentazione di Euridice ed Orfeo[5], ma resta un’opzione di lavoro difficile da avallare essendo rara la raffigurazione di Orfeo intento a suonare il flauto. Stesso dicasi per l’identificazione della figura coronata con David, certamente possibile ma tutt’altro che certa proprio per i tratti non maschili che essa reca.

Pur permanendo dubbi di natura iconografica, la possibilità di identificare la fonte della figura di destra (fig. 3) offre però importanti chiavi di lettura per la cronologia. La suonatrice di flauto, infatti, appare ricalcata in modo pedissequo sull’Euterpe (fig. 4) effigiata nella serie E dei cosiddetti “Tarocchi del Mantegna”, la cui importanza in seno alla cultura borsiana è stata di recente nuovamente affermata nel contesto della già citata mostra del 2007. Anche la figura coronata a sinistra testimonia di essere stata costruita sulla falsariga della visione delle carte attribuibili all’artista di corte Gherardo da Vicenza, in particolare dell’Astrologia (medesima la posizione delle gambe e dei piedi, l’apertura e le pieghe del mantello, postura del braccio, ecc.) o, parzialmente, della Fortezza. Se la presenza dello stesso Borso ha portato a scalare il pannello tra il 1452, anno in cui l’Estense comincia a fregiarsi dell’uso dell’aquila imperiale, ed il 1471, anno della morte del duca, la rilevazione della citazione spinge ad abbassare al 1465 circa il post quem dell’esecuzione, vale a dire a quando cominciano ad essere registrate le prove della circolazione dei presunti Tarocchi[6].

Sul piano dello stile, come detto, la scultura viaggia sulle stabili frequenze dei miniatori borsiani. Se non occorre dir molto su questo, appare importante sottolineare le similitudini espressive, l’impaccio seriale nella costruzione dei corpi e dei volti che essa intrattiene con il fare del Maestro del Messale del cardinale Marco Barbo[7]. Molto simile appare il modo di riproporre le increspature espressive di Giorgio d’Alemagna, a capo dell’impresa della Bibbia di Borso, cui il Maestro del Messale Barbo prese parte prima di lavorare negli anni Sessanta per le congregazioni canonicali riformate del padovano.

Verso Padova porta anche la Madonna col Bambino, palesemente in linea con i modelli più genuinamente squarcioneschi degli anni Cinquanta (in particolare la Madonna col Bambino nota nelle due versioni di Baltimora, stabilmente considerata opera di Nicolò Pizolo, e di Maastricht), passando per quelli zoppeschi (la tavola di Berlino del 1455), fino ad arrivare nel decennio successivo alla mediazione adriatica di Giorgio Chiulinovich (in particolare nelle Madonne di Torino e Amsterdam)[8].

Alla ricerca dei modelli che potevano sottostare alla genesi iconografica della Madonna Walters, Alberta De Nicolò Salmazo ha attirato l’attenzione sull’altare della scarsella della Sacrestia Vecchia di San Lorenzo a Firenze, scolpita da Andrea di Lazzaro nel 1432. L’immagine di questa scultura, attraverso derivazioni plastiche o disegni, deve davvero aver circolato in area settentrionale, visto che anche il nostro artista mostra di conoscere la soluzione adottata per la mano destra della scultura fiorentina, riproposta a Ferrara nella sinistra di Maria, con la medesima posizione e funzione scenica[9].

Ma chi era quindi questo artista non abilissimo nella figurazione ma peritissimo nell’arte del bassorilievo? Ortograficamente tentennante, l’iscrizione ci trasmette l’informazione che orgoglioso autore dell’opera fu Antonio di Pietro da Venezia.

La parola tronca “Mas[…]” sembra potersi sciogliere in “Maestro” o “Mastro”; non quindi Masegne, come io stesso avevo provato ad interpretarla in precedenza[10].

Ovviamente in questo Antonio di Pietro non andrà riconosciuto il quasi omonimo Antonio Lombardo, anche lui figlio di Pietro[11], ma un altro artista attivo a Ferrara attorno al 1470. Un lapicida assai pratico nella scultura a bassorilievo, con qualità da cesellatore più che da scultore a tutto tondo. Negli spogli documentari condotti da Adriano Franceschini non v’è, purtroppo, traccia di artisti con questo nome negli anni che ci interessano, ma solo precedentemente, in anni che portano ad escludere la possibilità che si tratti della stessa persona[12], mentre è interessante la notizia che vede un Pietro da Venezia (pittore o scultore?) stipulare società con Antonio Orsini il 20 settembre del 1453[13]. In anni successivi, invece, troviamo un «Mistro Antonio Veneziano intaiadore» impegnato il 9 settembre 1508 nello «Studio del Signore [Alfonso I]», intento a segare un asse «per fare el sufità (soffitto?)»[14].

Arduo credere che questo Antonio di Pietro intagliatore in legno possa essere, 38 anni dopo, l’autore del nostro pannello. Portando la nostra attenzione su Padova, che come abbiamo visto appare ricca di riferimenti per la nostra opera, emerge la figura documentaria di un’orefice (si ricordi quanto dicevamo sopra riguardo il fare da cesellatore) di nome Antonio figlio di Pietro barbiere, che risulta attivo nel 1472 e poi nel 1492-93[15]. È molto interessante, in particolare, l’ultimo dei documenti pubblicato da padre Sartori, ovvero quello relativo al luglio del 1493, quando, in occasione dell’acquisto di una casa a Padova, «Mag. Antonio» viene definito «aurifex, q. Mag. Petri barberii de Ferantibus, de domo estensi», elemento che lega le sorti di questo artista ai territori ferraresi. Nulla di conclusivo in questo, ovviamente, ma appare stimolante l’intreccio tra il legame con Ferrara del padre, la provenienza veneta dell’artista e la sua professione, compatibile con i modi figurativi della nostra scultura.

/continua sul prossimo numero di “MuseoinVita”/

Note

[1] G. Sassu, Verso e oltre Schifanoia, in M. Natale (a cura di), Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este, cat. della mostra, Ferrara 2007, p. 423. Si veda anche: G. Sassu in B. Giovannucci Vigi e G. Sassu (a cura di), Museo della Cattedrale di Ferrara. Catalogo generale, Ferrara 2010, pp. 107-109 cat. 47. Anticipando quanto verrà esposto nella seconda parte di questo scritto, occorre sapere che la collocazione originaria del rilievo è Santa Maria in Vado: qui nel marzo del 1873 viene collocata in sagrestia provenendo dal secondo chiostro dello stesso convento, al tempo sede dell’asilo Luisa Grillenzoni; succesivamente è ricordata nella cappella Varani nel 1908 e nel 1914, sede che deve aver lasciato dopo la trasformazione del sito in Cappella dei Caduti agli inizi degli anni Venti. Prima del 1978 raggiunge il Museo (fig. 2).

[2] M. Natale, G. Sassu, In mostra, in Ibid., p. 38.

[3] Il primo ad identificarvi Ercole I fu don G. Cavallini, Omaggio al sangue miracoloso… di Santa Maria del Vado in Ferrara, Ferrara 1878, pp. 250-252 (con un lapsus calami indicante Ercole II). Riprende questa fonte, A.P. Torresi, Tre scultori per Ercole I…, in G. Gentilini, L. Scardino (a cura di), Crocevia estense. Contribuiti per la scultura a Ferrara nel XV secolo, Ferrara 2007, p. 203 nota 84. La corretta identificazione con Borso è già in B. Giovannucci Vigi, Museo della Cattedrale di Ferrara. Catalogo generale, Bologna 1989, p. 36.

[4] Si veda al riguardo quanto si argomenterà nella seconda parte.

[5] Giovannucci Vigi, Museo cit., p. 36.

[6] Cfr. Sassu, Verso e oltre cit., p. 423, al quale si rinvia anche per il tentativo di attribuzione della serie incisa a Gherardo da Vicenza, autore anche dell’Agosto del Salone dei Mesi. Sugli aspetti iconografici e la storia della serie si veda S. Pollack in Natale (a cura di), Cosmè Tura e Francesco del Cossa cit., pp. 398-403; sulla datazione invece M. Faietti in Le muse e il principe. Arte di corte nel Rinascimento padano, a cura di A. Mottola Molfino e M. Natale, cat. della mostra, Catalogo, Modena 1991, pp. 431-437.

[7] Così come lo conosciamo dall’opera dalla quel prende il nome: Padova, Biblioteca del Seminario, cod. 355, ad esempio c. 1r; cfr. F. Toniolo in La miniatura a Ferrara, cat. della mostra, Modena 1998, pp. 125-128 cat. 14.

[8] Per la Madonna Walters e la derivazione di Maastricht cfr. A. De Nicolò Salmazo, Una proposta per la “Madonna con il Bambino” Walters, in Francesco Squarcione ‘pictor gymnasiarcha singularis’, atti delle giornate di studio, a cura di A. De Nicolò Salmazo, Padova 1999, pp. 159-176. Per Marco Zoppo e lo Schiavone invece A. De Nicolò Salmazo, P. Astrua e A. Nante in A. De Nicolò Salmazo (a cura di), Mantegna e Padova. 1445-1460, cat. della mostra, Milano 2006, rispettivamente pp. 244-245 cat. 38, 250 cat. 50 e 256 cat. 53.

[9] De Nicolò Salmazo, Una proposta cit., p. 175 nota 77, con bibliografia precedente.

[10] Sulla scorta di un suggerimento di Guido Tigler, ho segnalato la presenta di un Antonio di Pietro delle Masegne in Dalmazia, nel cantiere del Duomo di Sibenik, in Sassu, Verso e oltre cit., p. 423, avvertendo però della differenza stilistica tra quest’ultimo artista e quello attivo a Ferrara. In realtà, si tratta di Antonio figlio di Pierpaolo delle Masegne che nel 1435 è intento a costruire il nuovo Duomo di Sibenik ma che già nel 1441 viene sostituito da Giorgio da Sibenico. Cfr. almeno A. Dudan, La Dalmazia nell’arte italiana. Venti secoli di Civiltà, Trieste 1921-22 (ristampa 1999), vol. I, pp. 142-143.

[11] Come fece Cavallini, Omaggio cit., pp. 250-252, inducendo in errore anche G. Medri, La scultura a Ferrara, Rovigo 1958, p. 97, il quale non conosceva, come vedremo, la nostra scultura. Non al corrente della “esistenza in vita” dell’opera, che basta è sufficiente per confutare l’ipotesi Lombardo, anche A. Sarchi, Antonio Lombardo, Venezia 2008, pp. 161-162 note 32 e 33 che riporta erroneamente la descrizione di Cavallini (che non parlava affatto di un’Assunzione né di Alfonso I, come abbiamo visto).

[12] Nel dicembre del 1420 Niccolò III concede licenza ad Antonio da Venezia «magistro lapidum marmoreorum» e a suo figlio Alvise di importare, lavorare e rivendere marmi senza pagare dazio, cfr. A. Franceschini, Artisti a Ferrara in età umanistica e rinascimentale. Testimonianze archivistiche, Parte I: dal 1341 al 1471, Ferrara-Roma 1993, pp. 815-816, app. 11; notizia ripresa da E. Peverada, Lastre sepolcrali figurate del Quattrocento ferrarese, in Gentilini-Scardino, Crocevia estense  cit., p. 238. È lo stesso personaggio, figlio di tal Luigi, che, consultando Franceschini ad indicem, si scopre essere in litigio con un abitante della contrada Santa Maria in Vado ed essere attivo in Cattedrale nel 1432, nei cantieri estensi di Viguere (Voghiera) nel ‘36, e di Fossadalbero l’anno seguente.

[13] Cfr. ancora Franceschini, Artisti a Ferrara…Parte I cit., p. 400 doc. 718.

[14] A. Franceschini, Artisti a Ferrara in età umanistica e rinascimentale. Testimonianze archivistiche. Parte II, Tomo II: dal 1493 al 1516, Ferrara 1997, p. 694 docc. 859e, 859g. Negli stessi mesi, poi, appare curiosa coincidenza la vicinanza che i documenti attestano tra Antonio Lombardo ad un altro Antonio di Pietro scultore, il cui cognome è però Bregnoni di provenienza lombarda. Su Antonio di Pietro Bregnoni cfr. op. cit., p. 717 doc. 908. Mi pare confonda questi due Antoni, entrambi noti come intagliatori in legno, P. Paoletti, Architettura e scultura del Rinascimento in Venezia, Venezia 1908, II, p. 127 doc. 172; p. 120 doc. 125; p. 258.

[15] A. Sartori, Documenti per la storia dell’arte a Padova, a cura di C. Fillarini, con un saggio di F. Barbieri, Vicenza 1976, p. 259. Rimando alle pp. 450, 455-456, per altri “Antonio di Pietro” attivi nella prima metà del secolo.

Pubblicato su “MuseoinVita” | 1 | febbraio 2015