L’assetto storico-politico della Ferrara del Seicento, all’indomani della Devoluzione del Ducato allo Stato Pontificio, ha avuto importanti ripercussioni sulle botteghe artistiche presenti sul territorio.

Ritrovatesi prive delle committenze ducali, esse si impegnarono a soddisfare le richieste provenienti da ambiti diversi, fossero esse di matrice religiosa o legate alla nuova classe dirigente. In questo frangente, tutt’altro che marginale è la produzione artistica di copie o repliche sovente connessa, in qualche modo, agli ultimi lembi del clima del regno di Alfonso II.

La vivacità di una simile attività, che può essere annoverata a pieno titolo tra le produzioni artistiche più floride della Ferrara del XVII secolo, è altresì documentata dalle parole del Baruffaldi e dalle cronache locali.

Prima di entrare nel vivo della trattazione, ci sembra opportuno fornire alcune coordinate di tipo storico-critico, per meglio inquadrare il fenomeno e comprenderne il carattere identitario all’interno della tradizione artistica ferrarese.

Come sosteneva Ernst H. Gombrich in un suo celeberrimo saggio[1], vi sono due modi di intendere e recepire il classico: l’imitazione e l’assimilazione. Il primo è quello a cui naturalmente tende l’artista che, agli albori del suo percorso produttivo, guarda ai grandi modelli offerti dagli artisti precedenti e vi si conforma, emulandoli. Il secondo invece, più complesso e articolato, pertiene ad una rielaborazione del modello che avviene sulla base di condizionamenti personali ed esterni, quali istanze politiche, religiose e culturali.

A tal proposito, si può certamente affermare che questi modi operandi risultano prevalenti nella produzione artistica moderna, in particolare tra XVI e XVII secolo.

A ciò si aggiunga una doverosa precisazione: il concetto di classico, magistralmente espresso nella definizione di Giulio Carlo Argan[2], si lega ad una qualsiasi tipologia di fenomeno del passato le cui esemplarità e tipicità devono essere universalmente riconosciute nel più ampio contesto di produzione, per essere assunte come tali.

Tuttavia, riprendendo le categorie gombrichiane, la maggior parte delle opere rinascimentali sono la dimostrazione di un’assimilazione dell’antichità che, in un certo qual senso, assume i tratti di una “fagocitazione”. In altre parole, talvolta la fonte a cui l’artista attinge non risulta perfettamente riconoscibile, ma si tratta di un’eclissi soltanto apparentemente poiché essa riemerge, riproposta in una veste inedita e rielaborata.

L’idea di fondo esplicitata da Gombrich è che nessuno tra gli artisti rinascimentali abbia applicato a suo tempo quella che egli ha definito “tecnica dell’imitazione”, se non nella pratica del disegno dall’antichità. Lo stile all’antica, perseguito da colui che ambiva a divenire il novello Apelle dell’età moderna, si fondava su un processo di assimilazione di tutta una serie di temi, stilemi e gesti particolari presenti nell’opera antica, oggetto di studio. Successivamente tali elementi, rimodellati attraverso lo studio dal vero del corpo umano, sarebbero stati riprodotti per dar vita ad una nuova tipologia compositiva.

Per arrivare a queste conclusioni, il ragionamento gombrichiano si riallaccia alla canonizzazione che in ambito letterario interessa gli autori classici: essi assurgono a modello di stile e di linguaggio e divengono un corpus utile di riferimento, da cui attingere a piene mani. Tale modalità di approccio, che tuttavia rifugge l’imitazione «pura e semplice», si condensa efficacemente nella posizione espressa da scrittori antichi, quali Seneca e Quintiliano. Il primo in particolare sostenne che il «buon imitatore» doveva essere in grado di trasformare la sua materia di studio, così come l’ape trasforma il nettare in miele, o come il corpo dal cibo «assimila» il nutrimento.

L’immagine, piuttosto felice in questo dibattito, godrà di una discreta fortuna, al punto che lo stesso Francesco Petrarca vi innesta una nuova similitudine, paragonando l’atto dell’ «imitazione» alla somiglianza parentale tra padre e figlio[3].

Nella trattazione Gombrich adduce un solo esempio di «estrema imitazione»[4], mentre ampio spazio è dedicato alla pratica assimilativa, per la quale egli riporta il caso dell’artista Giulio Romano e del suo affresco nella Stanza di Costantino, raffigurante la Battaglia di Costantino contro Massenzio.

Lo studio del dipinto, peraltro avvalorato da dimostrazioni particolareggiate, ha evidenziato la profonda conoscenza da parte dell’allievo di Raffaello delle opere e degli autori «classici», con evidenti rimandi ai sarcofagi antichi con raffigurazioni di temi analoghi e alle riproduzioni della Battaglia di Cascina di Michelangelo.

Per converso, partendo dall’osservazione di una tra le opere antiche (o pseudo-tali) più studiate e riprodotte tra XV e XVI secolo, ovvero il Letto di Policleto[5], egli si spinge ad un’ulteriore considerazione che pare suffragare la precedente. L’elevata consapevolezza delle proprie capacità ha indotto l’artista a disattendere il modello, che risulta comunque riconoscibile in virtù di alcune caratteristiche peculiari, come la ricerca di quell’estremo senso di movimento tanto caro agli artisti rinascimentali.

A partire dalla citazione di una missiva in cui Pietro Aretino, rivolgendosi all’artista ne lodava «concetti anticamente moderni e modernamente antichi», Gombrich introduce un nucleo tematico fondante di tale riflessione e giunge ad una canonizzazione del concetto di «imitazione». In particolare, richiamando alla mente i concetti di Bewegtes Beiwerk («accessorio animato») e di Pathosformel («formula di pathos»), espressi da Warburg negli scritti su Botticelli e Dürer[6], egli individua nel movimento tipico dello stile all’antica, l’istanza primaria che sottende al grande amore degli artisti rinascimentali per l’arte classica.

In realtà questa ricerca, che pure aveva indotto intere generazioni di artisti a non accontentarsi delle mediazioni medievali e anzi ad attuare una serrata “caccia alla fonte”, trovava la sua ragion d’essere nella credenza per cui l’arte antica, straordinariamente fedele alla natura, avesse coltivato il culto dell’«illusione del movimento e della vita».

Come è noto, lo studio e la copia delle antichità, anche per quel che concerne il corpo umano, avveniva per il tramite del disegno. L’attività grafica era stata probabilmente la prima forma di produzione artistica a cui pittori come Michelangelo si erano accostati una volta entrati in bottega, il che la rendeva un punto di partenza imprescindibile anche per gli artisti delle generazioni successive.

Ma, come osservato da Erwin Panofsky[7], mentre in linea generale nella preparazione dell’opera si possono distinguere tre diversi livelli di disegno (il pensiero iniziale, lo studio dei particolari e l’opera definitiva), in Michelangelo il primo livello è totalmente assente, in quanto la sua idea iniziale coincide con la realizzazione definitiva dell’opera.

È interessante notare come i numerosi documenti grafici a noi pervenuti consentano più di una riflessione sulla metodologia di studio dell’antico.

La pratica disegnativa, in una fase preparatoria dell’opera, era alla base dell’operato degli artisti toscani, stando anche a quanto si evince dalla trattatistica. Ad esempio, Cennino Cennini, pittore giottesco attivo tra il XIV e il XV secolo nell’Italia centro-settentrionale, nel suo Libro dell’Arte[8] sostenne l’importanza dell’attività grafica, definita quale principio fondante dell’elaborazione artistica, in un assunto valevole per la pittura e per tutte le arti riconducibili ad essa[9].

Ad ogni modo Michelangelo vi ricorreva non soltanto per l’esecuzione di opere pittoriche, ma anche per le realizzazioni scultoree e architettoniche. Il disegno offriva infatti la possibilità di copiare una determinata “situazione” che l’artista avrebbe poi riprodotto, variata in alcuni dettagli, per dar vita ad un’opera originale, in cui fosse comunque intuibile la citazione della fonte. Pertanto, tutto ciò che l’artista osservava e disegnava andava a costituire un archivio di motivi e stilemi da cui questi avrebbe potuto attingere in caso di necessità. Questa caratteristica dell’attività grafica michelangiolesca è alla radice dello sviluppo della creazione artistica del Buonarroti, il quale – come già ricordato – utilizza solo due fasi disegnative prima di approdare al “prodotto finito”, ovvero quella del progetto iniziale, che nel caso specifico corrisponde già all’opera definitiva, e quella dello studio dei particolari, siano essi anatomici o decorativi.

L’esempio michelangiolesco dunque ben si presta ad introdurre la tematica della copia: da replica fedele di un originale del passato essa diviene il prodotto dello studio dell’artista che, grazie al bagaglio figurativo incamerato con l’attività di copista, riesce ad innestare nelle sue composizioni gli elementi innovativi che ne caratterizzeranno la produzione artistica.

Talvolta, come ricorda Massimo Ferretti[10], i rifacimenti delle opere d’arte sono legati alle attività più o meno lecite di alcuni artisti che si prestano al mestiere di falsario o di restauratore. Quest’ultima attività, particolarmente controversa nel Cinquecento, è stata al centro di accesi dibattiti soprattutto per quel che concerne le azioni ricostruttive condotte sulle sculture antiche. A questo proposito, emblematico è il caso del Bacco realizzato da Michelangelo per il cardinale Raffaele Riario: ad un certo punto infatti l’opera si rovinò, evidenziando una rottura sulla mano alzata con la coppa di vino protesa. Nel momento in cui avvenne il danno, gli artisti si trovarono a disegnare o descrivere l’opera michelangiolesca e ciascuno tentò di integrare la rottura in base alla memoria dell’originale.

È qui che assistiamo ad un primo mutamento sostanziale nel modo di intendere l’antichità classica, da parte degli artisti moderni: cambiano le condizioni di lettura del modello e con esse muta anche l’esperienza della copia. Dalle sculture o rovine antiche, recepite con l’ottica di un’efficace assimilazione con l’ambiente circostante – ragion per cui sovente, oltre la metà del XVI secolo, esse erano esposte all’esterno nei giardini o inglobate entro i muri perimetrali dei palazzi – si passa alla moderna opera d’arte che, conservata sotto l’attento sguardo del proprietario, trova una sede privilegiata nello spazio chiuso della galleria. 

Nel merito della questione, il Vasari parlerà di «contraffazione», termine con cui – nel linguaggio tecnico-artistico dell’epoca – si designava al contempo una copia dal modello naturale, ma anche dal modello artificiale, ossia realizzata a partire da un’opera già compiuta da un altro artista[11].

Col tempo, il vocabolo proposto dal biografo ed artista aretino cadde in disuso, soppiantato dal più moderno “copiare” e da tutte le sue declinazioni[12].

Fig. 1 - Frontespizio del Vocabolario toscano dell’arte del disegno (1691) di Filippo Baldinucci

Fig. 1 – Frontespizio del Vocabolario toscano dell’arte del disegno (1691) di Filippo Baldinucci

Il primo a chiarire l’azione di “copia” è Filippo Baldinucci (fig. 1) che, in un repertorio dedicato all’arte del disegno, definisce questa tipologia di manufatto come «Fra’ nostri Artefici, dicesi quella opera che non si fa di propria invenzione, ma si ricava per l’appunto da un’altra, o sia maggiore, o minore o eguale dell’originale», passando all’azione del copiare, che definisce come «Far copia, ricavare dall’originale, far cosa simigliante a cosa fatta», infine definendo il “copiatore”, ovvero «Colui che copia dall’altrui originale; cioè quei che non fa d’invenzione, ma con esemplo»[13].

La spiegazione data da Baldinucci ci fa comprendere come l’utilizzo del disegno, concepito secondo le modalità descritte da Panofsky, sia una prassi imitativa di gombrichiana memoria, applicabile anche alle copie pittoriche di quadri già realizzati, assunti a modello “classico” di quel tempo.

Tornando all’analisi di Ferretti, appaiono piuttosto interessanti due esempi strettamente connessi al mondo estense e ferrarese. Questi, dal gusto aneddotico, sono utili a definire gli intenti della produzione artistica di copie che interessò il neo baluardo dello Stato pontificio.

Fig. 2 - Ritratto del cardinale Luigi d’Este da Fisonomia naturale di Gio - Battista Dalla Porta. Giouanni Ingegnieri. Polemone.& Fisonomia celeste del medesimo Porta, Padova 1622

Fig. 2 – Ritratto del cardinale Luigi d’Este da Fisonomia naturale di Gio – Battista Dalla Porta. Giouanni Ingegnieri. Polemone.& Fisonomia celeste del medesimo Porta, Padova 1622

Il primo episodio è legato alla personalità del cardinale Luigi d’Este (fig. 2). Collezionista d’ispirazione non umanistica, il porporato era interessato al possesso degli oggetti artistici non soltanto per il valore che intrinsecamente riconosceva in tali capolavori o per le loro valenze simboliche, quanto per la possibilità di ricostruire le singole maniere del percorso storico-artistico, grazie alle opere riunite in un unico repertorio. Erano queste le finalità che guidarono la sua raccolta di disegni, assemblata senza le istanze estetiche personali o collezionistiche evidenti, invece, nella collezione del suo successore cardinalizio Alessandro.

Ebbene, l’episodio è raccontato da Carlo Cesare Malvasia e riguarda i suoi rapporti con il pittore Denijs Calvaert. Questi, tra il 1574 e il 1575, al termine del suo soggiorno romano, fu intercettato dal religioso che intendeva sottoporgli la propria raccolta di opere grafiche. Tra queste, l’artista riconobbe immediatamente come proprie alcune realizzazioni vendute come autentiche produzioni di Raffaello e Michelangelo[14].

Questo aneddoto pone dubbi sulla finalità della copia: queste opere venivano realizzate come manipolazioni e contraffazioni di un originale più antico o erano, più in generale, uno strumento di conoscenza della tradizione?

Fig. 3 - Frontespizio del Dizionario delle Belle Arti del Disegno (1797) di Francesco Milizia

Fig. 3 – Frontespizio del Dizionario delle Belle Arti del Disegno (1797) di Francesco Milizia

Il tal senso, appare utile la consultazione di un altro dizionario tecnico-artistico, qual è quello di Francesco Milizia (fig. 3); questi, nel definire il lemma “copia” attua una spiegazione complessa ma parimenti chiarificatrice e classificatrice:

Si distinguono tre sorti di copie: 1. Fedeli e servili. Queste si conoscono facilmente per lo stento soffritovi dal copista, benché egli vi abbia conservato il disegno e il colorito dell’originale. 2. Facili e infedeli. La facilità dà loro qualche apparenza di originalità, ma questa vien subito tolta dalla inesatta imitazione dello stile, e del pennello dell’autore. 3. Le Fedeli e facili. Col riunire la facilità ad una imitazione precisa gettano nel dubbio anche i più grandi conoscitori. […] Le buone copie, benché prive delle finezze dell’originale, e delle grazie della mano maestra, conservan però la composizione, il gusto generale del chiaroscuro, del colore e del disegno; onde sono pregevoli. Sono pregiatissime dagli Amatori, se le hanno per originali, e rigettate subito con isdegno dacché sono avvertiti esser copie. Chi non sa esser autore, faccia il Copista. Ma i giovani di buon talento copino poco, e il migliore de’ capi d’opere: se ne facciano piuttosto delle note. Chi va molto dietro ad altri, non saprà mai andar da sé, né gli si svilupperanno mai le sue facoltà, resterà intrappito[15].

È forse a partire dalla terza modalità di copia descritta dal Milizia che si delinea la figura che Ferretti definisce «pasticheur», ovvero quella di un copista abilissimo che è al contempo pittore, conoscitore e perito d’arte.

Le figure realizzate da questi artisti rivelano una puntuale conoscenza delle “maniere” di altri pittori, maniere che adeguatamente assimilate sino ad una piena padronanza, consentono loro di esprimere al meglio, per dirla come gli antichi, la loro personale virtù.

Di questa categoria di artisti fa parte Giuseppe Caletti detto il Cremonese[16], secondo protagonista dell’analisi di Ferretti, la cui biografia, scritta dall’abate Girolamo Baruffaldi, inizia con le parole che descrivono il genio innato del pittore:

Giuseppe Cremonesi, altrimenti detto de’ Caletti (chè questo veramente dovea essere il suo cognome) nato in Ferrara ne’ principii del secolo XVII, fu non c’ha dubbio dotato da Dio d’un gran talento nella professione della pittura, ma portò eziandio seco da’ suoi natali una gran disamoratezza al suo buon nome ed al vantaggio suo proprio. Si può dire ragionevolmente che costui nascesse pittore, e che allo studio della pittura si appigliasse senza saperne il perché. Il praticare co’ professori dell’età sua lo istruì bastevolmente del modo col quale s’impastassero e si stendessero sulle tele i colori: del rimanente egli non ne volle altro di viva voce da alcuno, né di magistrale insegnamento. Si prefisse nella mente di poter riuscire, non dirò grand’uomo, perché non sapea ciò che si volesse dire con tal nome, ma tutto quello ch’ei si volesse, a vedere solamente le opere altrui[17].

Lo stile del Caletti evidenzia una pittura in chiave cinquecentesca, ispirata sì fortemente al Dosso, ma anche con uno sguardo alla cromia della vicina Venezia, con particolare riferimento a Giorgione, Tiziano e ai suoi allievi. La sua pittura «stravagante», così come la definisce il Lanzi, gli consentì di acquisire un ruolo prioritario anche al di fuori del panorama artistico locale, in primis grazie alla sua attività di incisore e di contraffattore di modelli veneti[18], doti che contribuirono ad alimentarne la fama quanto la nomea tra antiquari e commercianti (Figg. 4-5).

La ripresa delle caratteristiche tipiche della pittura cinquecentesca estense e veneta lo fanno inquadrare dalla letteratura artistica come un pittore dal sentimento nostalgico nei confronti del secolo precedente, al quale guarda per estrapolare quel repertorio di situazioni e costumi lontani che gli consentono di «fantasticare il mondo di Ariosto nella Ferrara papale»[19]. L’esperienza artistica di Giuseppe Caletti rappresenta di fatto l’apice del fenomeno della copia in area ferrarese.

Lo spirito della sua pittura, definito come bizzarro e barocco, propone un felice connubio tra la ferraresità che gli ha dato i natali e liberalità cromatica desunta dai dipinti veneziani, al punto che Savonuzzi ne parlerà nei termini di un pittore «moderno in una bottega antiquaria», e come «il più moderno tra i contemporanei»[20].

La sua attività inoltre procede su binari paralleli, in un dualismo di istanze riconducibili ai lati antitetici di una stessa medaglia. Se da un lato essa si lega alle esigenze del nascente mercato artistico, che in questa fase è governato dal policentrismo delle maniere, dall’altro si presta anche alle più libere realizzazioni antiaccademiche.

Il particolare caso di Caletti, induce a vagliare con maggiore attenzione le notizie in nostro possesso, ricercando le modalità secondo cui gli oggetti d’arte erano assunti come modello nella fase di formazione dei pittori e, soprattutto, la funzione e lo scopo delle numerose copie prodotte, nella capitale estense, da artisti di non minor rilievo.

Il recente contributo di Valentina Lapierre sull’attività svolta dallo Scarsellino[21] in veste di copista, ha portato in luce quella che, quasi certamente, doveva essere una pratica piuttosto comune all’alba della Devoluzione.

In particolare, secondo una prassi consolidata, le opere dei maestri rinascimentali locali venivano sostituite con delle copie delle stesse che, in accordo con le categorie esposte dal Milizia, sarebbero da definirsi come «facili e infedeli», ossia copie sì somiglianti all’originale ma tradite da uno stile profondamente diverso.

Dobbiamo inoltre a diverse cronache storiche e a documenti manoscritti il racconto delle malefatte di Enzo Bentivoglio, personaggio che, tra i principali responsabili della spoliazione di residenze e chiese ferraresi,[22] contribuì – anche in qualità di agente dell’avidissimo Scipione Borghese – ad incrementare il fenomeno della commissione di copie.

La realizzazione di queste fedeli repliche, successiva alla sottrazione degli originali, rappresentava per gli artisti una duplice opportunità: dapprima il beneficio di un apprendistato, condotto direttamente sui dipinti dei grandi maestri del passato, e a seguire la trasmissione della memoria figurativa locale, di cui quelle copie si rendevano veicolo privilegiato, anche a livello sovra regionale. Tali dipinti dunque, nati come copie di opere antiche, si caricano di una valenza inedita e singolare. Da storici dell’immagine a illustri rappresentanti del patrimonio figurativo estense, essi divengono quei “classici” ferraresi che di lì a poco andranno ad arricchire le collezioni dei nobili romani con la rappresentanza di una scuola pittorica sino ad allora quasi sconosciuta.

Per avere qualche esempio di quella che era la produzione artistica di copie nella Ferrara della Devoluzione, sarà sufficiente osservare quanto riportato in una delle numerose cronache che appartennero a Baruffaldi[23]:

adì 26 novembre 1598: […] avendo agiornato le legi et i tribunali et altre chose che facevano di bisogno nella città benché privò la città di Ferrara di molte valide e nobili pitture che il pontefice portò a Roma et furono le infrascritte: una Santa Margherita man de l’Ortolano qual era nella Consolacione, una Natività del Signore opera del Choregio qual era nel giesu[24] […], una Pietà di Benvenuto nella Madonnina, un San Giovanni nella Pochalise nel Duomo achanto alla Porta de Mesi qual era dei Dossi, un Christo morto nella Chiesa di Santo Spirito opera del Caravagio[25], un Santo Antonio Abate et altri Santi nella Chiesa di Santa Maria Nova nella capella de Bonlai. Et altri in altre chiese che tropo lungo sarebe il discorrerne avendo lasciato nelle dette chiese le copie et molto afini quadri che ebero da diversi particholari in diverse chiese et il tuto portarono a Roma benché non mancarono di portarvi molte altre piture come financho pezi di mobili et altro che per non dir troppo tacio[26].

Se prendiamo in esame le opere attribuite ai maestri ferraresi del Cinquecento – includendovi anche l’ultima, per la quale non è esplicitato l’artista – e incrociamo i dati con quanto desunto dalle Vite di Baruffaldi e dalla Descrizione redatta da Carlo Brisighella, apprendiamo che tutti i dipinti citati nella cronaca sono il prodotto di un’attività di copia.

La Santa Margherita dell’Ortolano (fig. 6), ricordata ancora nella chiesa della Consolazione dal Superbi[27] e dal Guarini[28], ed erroneamente collocata in Santa Maria dei Servi dall’Orlandi,[29] venne rimossa dalla sede originaria per volere del principe Savelli, che ne fece realizzare una copia in sostituzione dell’originale, trasferito a Roma. E proprio Baruffaldi[30] ne testimonia l’avvenuto trasferimento nella capitale pontificia e, con esso, la realizzazione della copia per mano di Giacomo Bambini[31]; ad oggi l’opera è riprodotta nel quadro di Pannini raffigurante la collezione di Silvio Valenti Gonzaga (fig. 7), e citata nell’inventario con l’attribuzione a Luca Penni[32].

La Pietà del Garofalo, in origine depositata presso la chiesa della Madonna della Porta di Sotto, altrimenti nota come Chiesa della Madonnina, viene riconosciuta dalla Novelli nella Deposizione oggi conservata nella Galleria Borghese (inv. 390, fig. 8)[33], mentre la sua copia, eseguita da Giulio Cromer, firmata e datata, è identificata nella Deposizione della Chiesa parrocchiale di Osnago (Milano)[34]. L’originale peraltro è citato nelle note che Baruffaldi inserì a corredo del testo di Brisighella: «In faccia a questo è altro quadro, dove vedesi un Cristo morto in braccio alla Madre, assistita dalle pie donne, da S. Giovanni e da altri, con un ritratto di chi fece far quest’opera da Giovanni Battista Benvenuto detto l’Ortolano, la quale non è già pittura originale, ma copiata da Giulio Croma che nel piano vi fece ancora il suo nome»[35].

Il San Giovanni dell’Apocalisse di Dosso, un tempo ubicato nella Cattedrale di Ferrara e oggi custodito a Roma presso Palazzo Barberini, con il numero d’inventario 1770 (fig. 9), è descritto da Baruffaldi, assieme alla sua copia, nella biografia del maestro rinascimentale ferrarese:

Di non minor pregio era l’altra tavola fatta l’anno 1527 per la nobil famiglia ferrarese di quelli della Sale, ed eretta ad un altare del duomo nostro, contiguo già alla porta de’ mesi, ed ora poco lontano dal detto sito, quantunque la detta porta sia chiusa. Erano coloriti su d’essa li santi Bartolomeo apostolo, e Giovanni vangelista scrivente l’apocalisse, con di sotto i ritratti di Pontichino della Sale, ed un altro di detta famiglia, i quali eressero e dotarono questo altare – a Christi nativitate anno MDXXVII. Kal. Mensis Martii – siccome si leggeva al di sotto; ma per la sua rara e recondita bellezza, della quale parlano molti scrittori, fu trasportato l’originale a Roma, al tempo della devoluzione di questo Stato al governo di s. Chiesa, e ve ne rimase una copia ben eccellente, ma sempre copia, di mano di Ippolito Scarsella, detto Scarsellino.

Aggiungendo in nota: «Questa copia, che ora più non si vede, stava all’altare terzo a mano sinistra di chi entra, presso la cappella di s. Giorgio. Da qualche tempo ha dato luogo ad una bella tavola del Garofalo, della quale parlerassi a suo luogo»[36].

Mentre Brisighella le ricorda come:

Li SS. Giovanni Vangelista e Bartolommeo Appostolo con li ritratti di due della nobile famiglia della Sale collocati all’altare contiguo, furono dipinti dal gran Dosso Dossi, pittor ferrarese. Ma non è questa tavola originale. Fu essa levata e portata a Roma, nel tempo della devoluzione di questo stato alla chiesa romana, lasciandovi quello he presentemente vi si vede, ch’è una copia del primo fatta con gran diligenza da Ippolito ScarselliFno. Sul muro poi al disopra nella volta sono colorite a fresco diverse azioni del Vangelista s. Giovanni per mano del medesimo Dosso, le quali coll’occasione della nuova fabbrica sono state demolite [il corsivo è mio][37].

Altro esempio interessante è offerto dall’opera di Santa Maria Nuova. La tavola, che reca sul piedistallo marmoreo la data del 1523[38], è stata identificata a Roma presso Palazzo Barberini, all’inventario n. 21292 (fig. 10) ed è descritta da Brisighella nella sua primaria ubicazione all’interno della chiesa:

Nell’altra cappella della nobile famiglia Bonlei è una tavola sopra dipintovi S. Antonio Abate in mezzo alli SS. Antonio di Padova e Cecilia Vergine e Martire; e nell’ornamento un Padre Eterno. Questa già venne eccellentemente colorita dal pennello di Benvenuto Garofalo. Ma nella devoluzione di questo stato alla S. Sede fu trasportata a Roma con altre belle e insigni pitture, lasciandovi la presente copia fatta con diligenza da Ippolito Scarsellino[39].

Sebbene la copia attribuita a Scarsellino (fig. 11) non sia ancora stata individuata, sappiamo da fonti locali[40] che questa, dopo la demolizione della cappella, fu trasferita ad un altare minore e successivamente ritirata per volontà degli eredi della famiglia titolare – il cui cognome era ormai Pacchieni – per essere sostituita da un’altra copia attribuita a Don Finotti[41].

Ulteriore nucleo tematico è ancora osservabile nella produzione artistica di Ippolito Scarsella, detto lo Scarsellino: l’indubbia superiorità numerica delle opere che egli produsse in qualità di copista, si deve all’importanza attribuita al pittore nell’ambito delle committenze estensi. In primo luogo, egli figura nel gruppo dei copisti a cui si deve la realizzazione delle dodici tele dei Carracci che decoravano i soffitti di alcune delle stanze abitate da Cesare d’Este in Palazzo dei Diamanti[42]. Ma di fatto egli prese parte anche a commissioni di altra entità, quali la copia del Baccanale degli Andrii di Tiziano (figg. 12-13), oggi in collezione privata[43], o come quella del San Giorgio di Dosso Dossi (figg. 14-15) che, con buona approssimazione, può essere individuata nell’opera denominata come «Una testa con S. Giorgio coppiata dal Dosso senza cornice» presente nel libro di eredità del cardinale Alessandro d’Este tra i beni destinati alla Principessa Giulia (1624)[44].

Oltre a Ippolito Scarsella, dell’entourage di pittori chiamati da Cesare d’Este per le copie dei dipinti dei Carracci facevano parte anche Giulio Belloni, Giovanni Andrea Ghirardoni, Gaspare Venturini e Carlo Bononi[45].

Ed è proprio su quest’ultimo che, in fase conclusiva, appare doveroso concentrare la nostra analisi.

Con Bononi la produzione artistica di copie a Ferrara conosce un momento particolarmente significativo. La relazione che lo lega all’attività di copista risulta più complessa di quella osservabile in altri artisti, ma è perfettamente in linea con la produzione finora esposta. In particolare questi, all’indomani della Devoluzione, fu incaricato della valutazione delle opere d’arte destinate al trasferimento nella nuova sede ducale di Modena, ruolo noto attraverso le lettere dell’agente ducale Gaspare Prati[46]. Ebbene, tale incarico – ricoperto su committenza pubblica – evidenzia un’affinità con quel ruolo di «pasticheur» che Ferretti ha intravisto nella biografia baruffaldiana del Caletti e che si presenta come un leitmotiv nella costruzione delle geniali personalità artistiche ferraresi raccolte nelle biografie dall’abate centese.

Nonostante i repertori biografici a noi noti (la biografia dedicata al pittore ferrarese, redatta da Girolamo Baruffaldi[47], e la Descrizione composta dal nipote Carlo Brisighella) restituiscano l’immagine di una carriera artistica priva di simili esperienze, egli fu certamente autore di copie in prima persona, come testimoniato dai già citati documenti ducali e dagli stessi inventari delle quadrerie ferraresi del Seicento[48].

Quel che sappiamo per certo è che Bononi si adoperava nella pratica disegnativa e nella ritrattistica:

E perché s’era stabilito nell’animo, che per essere vero e buon pittore fa di mestiere imitar la natura, egli, così giovine com’era, cominciò da se solo a profittare su alquante teste naturali, che andava contrafacendo di giorno in giorno secondo che gli si affacciavano belle idee pittoresche, e d’esse si servì poi alle occorrenze di far opere studiate e d’invenzione, come si vede dalla raccolta, che ne fece e lasciò dopo morte […][49].

Baruffaldi in questo brano sembra ricalcare il modello proposto da Giovampietro Bellori nella biografia di Caravaggio, quando, in apertura, sostiene:

Dicesi che Demetrio antico Statuario fù tanto studioso della rassomiglianza che dilettossi più dell’imitazione che della bellezza delle cose: lo stesso habbiamo veduto in Michelangelo Merigi, il quale non riconobbe altro maestro che il modello, e senza elettione delle megliori forme naturali, quello che à dire è stupendo, pare che senz’arte emulasse l’arte. […] si propose la sola natura per oggetto del suo pennello. Laonde essendogli mostrate le statue più famose di fidia, e di Glicone; accioche vi accommodasse lo studio, non diede altra risposta, se non che distese la mano verso una moltitudine di huomini, accennando che la natura l’haveva à sufficienza provveduto di maestri[50].

Nella biografia tratteggiata dall’abate centese, emerge la figura di un artista che ha fatto della natura il modello della propria arte. L’imitazione della natura tuttavia – ben lungi dal costituire un tentativo emulativo fine a sé stesso – si carica di un ulteriore potenziale compositivo poiché, filtrata dal suo personale bagaglio artistico, darà vita a quelle che il Baruffaldi ha definito «opere studiate e d’invenzione». Pertanto, quella “contraffazione” a cui il religioso fa riferimento, è sì da intendersi con uno dei significati di vasariana memoria inizialmente presentati, ovvero di “imitazione del naturale”, ma potrebbe più specificamente designare quel che Baldinucci ricorda nel suo Vocabolario: «I nostri Artefici se ne vagliano alcuna volta per lo stesso, che ritrarre.»[51]

Nella riproduzione del naturale, la stessa tipologia ritrattistica è accompagnata da un’intensa attività disegnativa che alterna studi anatomici a progetti compositivi, e afferisce a quella che è la tradizione tosco-romana con cui il maestro ferrarese sarebbe entrato in contatto nel corso del suo – tutto da verificare – soggiorno romano[52].

Tale pratica, per quanto non documentata nel corpus delle opere bononiane esistenti, propone una più ampia visione del suo concetto di copia. Il ritratto è a suo modo una copia della realtà che, a quanto pare, veniva studiata e rappresentata dall’artista nella sua complessità, secondo un’originale modalità teatrale che potremmo definire venetamente barocca:

Trovato avea poi che il modellare molto vantaggioso riusciagli, e perciò effigiando diverse figure di creta, queste vestite di sottili drappicelli, ne ricavava quegli atteggiamenti, e quelle sicure pieghe, le quali tanto si considerano in tutte le opere di questo pittore. Nello studio di queste cose impiegava Carlo i giorni e le notti intere; ma più sempre piuttosto carico d’ombre, e di sbattimenti quasi per suo particolare carattere[53].

L’atto di plasmare con le proprie mani delle figure in creta e di vestirle come fossero persone per poi studiarne gli effetti luminosi sui drappeggi delle vesti, diviene parte integrante del processo compositivo e genera un’indubbia continuità che lega a doppio filo Bononi a Jacopo Tintoretto, del quale il Ridolfi, in una biografia dedicata al maestro veneto, aveva narrato una simile modalità di creazione artistica[54].

La vicinanza al pittore veneziano, se da un lato sembra quasi suggerire un’identificazione nella maniera dei due maestri – a riprova del suo merito artistico, Bononi verrà designato con l’appellativo di Tintoretto de’ ferraresi[55] – dall’altro apre ampi scenari sullo sguardo che i pittori ferraresi, a partire dal tardo Cinquecento, devono aver rivolto all’arte lagunare, riprendendone echi coloristici e compositivi.

***

La produzione di copie in contesto ferrarese riassume su di sé una duplice finalità: la restituzione di una tradizione figurativa territoriale, venuta meno a seguito della Devoluzione e, di riflesso, l’istruzione di giovani pittori che – in assenza di un’antichità a cui conformarsi – trovavano nei “classici” locali saldi punti di riferimento. Questi ultimi infatti costituivano una “palestra” d’eccezione poiché su tali modelli pittorici, da ammirare, copiare e variare, gli artisti potevano svolgere i propri esercizi di stile e innestare una personale poetica pittorica.

L’esempio biografico di Carlo Bononi ci fa comprendere come una simile personalità artistica, così complessa e ricca di riferimenti ad altre scuole pittoriche, fosse in realtà dai più considerata come e autonoma e “geniale”. Il pittore ferrarese, infatti, sceglieva i propri esempi senza per questo avvertire il bisogno di conformarsi a dei punti fissi nella tradizione locale.

Un’ulteriore testimonianza del significato assunto dalla produzione di copie, in questo caso commissionate da specifiche committenze religiose con un forte scopo identitario, è rintracciabile nel caso di Francesco Naselli. Questi, specialista nel campo delle copie, ricevette dall’ordine dei certosini l’incarico di replicare il celebre modello felsineo di Agostino Carracci eseguito per San Girolamo alla Certosa, ossia l’Ultima comunione di San Girolamo oggi conservata alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, per collocarlo nella certosa di San Cristoforo a Ferrara, dove è tuttora esposta. (figg. 16-17)[56].

In via di conclusione, intendendo come esercizio della copia non solo la produzione di repliche di opere dei grandi maestri, ma anche la riproduzione della natura e dei suoi lumi, occorre soffermarsi su un ultimo esempio che può essere esemplificativo di tale funzione. Si tratta della copia dell’Apollo (fig. 19) di Dosso Dossi, il cui originale è oggi conservato presso la Galleria Borghese[57]di Roma (fig. 18): un’opera che, recentemente venduta con attribuzione all’artista Antiveduto Gramatica[58], presenta una vivace componente coloristica e luministica dai chiari echi ferraresi.[59]

La pittura del Cinquecento ferrarese, per gli artisti delle generazioni successive, rappresenta dunque una strada maestra figurativa e identitaria, da «imitare e assimilare»: questa è la base imprescindibile dalla quale iniziare la propria produzione, nonché il modello sicuro a cui rapportarsi in corso d’opera. Un legame fruttuoso e stringente dunque, efficacemente sintetizzato nelle parole del Baruffaldi che, ricordando Giulio Cromer, affermava: «Nel copiare le cose de’ buoni maestri fu diligentissimo, solendo dire esser quella una scuola sicura e che non inganna»[60].

Note

Ringrazio per i suggerimenti, le correzioni, gli apprezzamenti e la paziente lettura Francesca Cappelletti, Romeo Pio Cristofori, Giovanni Sassu e Cecilia Vicentini.

[1] E. Gombrich, Lo stile all’antica: imitazione ed assimilazione, in Norma e forma. Studi sull’arte del Rinascimento, Torino 1973, pp. 178-188.

[2] G.C. Argan, Classico e anticlassico: il Rinascimento da Brunelleschi a Bruegel, Milano 1984.

[3] A. Quondam, Rinascimento e Classicismo, Roma 1999, pp. 98-103.

[4] Si tratta dell’opera di Bertoldo di Giovanni raffigurante una Battaglia quasi letteralmente ripresa da un antico sarcofago del Camposanto di Pisa.

[5] Noto rilievo scultoreo attribuito all’artista greco, probabilmente posseduto da Lorenzo Ghiberti e successivamente venduto dai suoi eredi. Conosciamo l’opera tramite copie del XV secolo: l’originale andò, infatti, perduto nel XIX secolo a Praga. Molti artisti del Rinascimento, a partire da Michelangelo, Tiziano, Raffaello e le loro relative cerchie, si servirono di questo tipo per la realizzazione di numerose opere.

[6] A riguardo si vedano: A. Warburg, La nascita di Venere e la Primavera di Sandro Botticelli. Ricerche sull’immagine dell’antichità nel primo Rinascimento Italiano, in La Rinascita del paganesimo antico, Firenze 1966, pp. 1-58; Idem, Dürer e l’antichità italiana, in op. cit., Firenze 1966, pp. 195-200; Idem, L’ingresso dello stile ideale anticheggiante nella pittura del primo Rinascimento, in Opere I, a cura di M. Ghelardi, Torino 2004, pp. 583 – 666; Idem, La posizione dell’artista nordico e dell’artista meridionale nei confronti dei soggetti delle opere d‟arte, in op.cit., Torino 2004 pp. 557 – 569.

[7] E. Panofsky (con una nota di G.C. Sciolla), I disegni di Michelangelo (1922), “Annali di Critica d’Arte”, 1, 2005, pp. 9-19.

[8] C. Cennini, Il libro dell’arte, Firenze 1859, capp. IV-V.

[9] Il mosaico, l’arte vetraria, l’intarsio.

[10] M. Ferretti, Falsi e tradizione artistica, in Storia dell‘arte italiana, vol. X, Torino 1981, pp. 115-195.

[11] Il termine viene utilizzato nel racconto di Giulio Romano che non seppe riconoscere un ritratto di Leone X con i cardinali Medici come copia di Andrea del Sarto dall’originale di Raffaello. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, a cura di P. Barocchi, vol. V, Firenze 1967, p. 42: «Ciò udito, fece rivoltar Giulio il quadro, e visto il contrassegno [di Andrea del Sarto] si strinse nelle spalle discendo queste parole: Io non lo stimo meno che s’ella fusse di mano di Raffaello, anzi molto di più; perché è cosa fuor di natura, che un uomo eccellente imiti sì bene la maniera d’un altro, e la faccia così simile.» Per comprendere al meglio il significato del verbo ‘contraffare’ all’interno della poetica vasariana, si rimanda al brano di apertura della Vita del Bellano: G. Vasari, Le vite cit., vol. II, p. 603-604: «Tanto grande è la forza del contraffare con amore e studio alcuna cosa, che il più delle volte, essendo bene imitata la maniera d’una di queste nostre arti da coloro che nell’opere di qualcuno si compiacciono, sì fattamente somiglia a la cosa che imita quella che è imitata, che non si discerne, se non da chi ha buon occhio, alcuna differenza; e rare volte avviene che un discepolo amorevole non apprenda, almeno in gran parte, la maniera del suo maestro».

[12] Per gli studi più recenti ed approfonditi sul tema della copia si vedano: C. Mazzarelli (a cura di), La copia. Connoisseurship, storia del gusto e della conservazione, San Casciano Val di Pesa (Fi) 2010; eadem, L’occhio del conoscitore e la questione della “ripetizione” tra copie e repliche: alcune note intorno al caso de “La Fortuna” di Guido Reni nella storia critica, in Il metodo del conoscitore, a cura di S. Albl, Roma 2016, pp. 273-289; S. Osano (a cura di), Originali e copie. fortuna delle repliche fra Cinque e Seicento, Firenze 2017; P. di Loreto (a cura di), Originali, repliche, copie. Uno sguardo diverso sui grandi maestri, Roma, 2018; C. Mazzarelli, Dipingere in copia. Da Roma all’Europa, 1750-1870, Roma 2018.

[13] F. Baldinucci, Vocabolario toscano dell’arte del disegno, Firenze 1681, p. 39.

[14] C.C. Malvasia, Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi, vol. I, Bologna 1679, ed. cons. 1841, p. 197.

[15] F. Milizia, Dizionario delle belle arti del Disegno, Bassano 1797, p. 207.

[16] Per le notizie sul pittore è di fondamentale importanza la consultazione del volume di E. Riccòmini, Il Seicento ferrarese, Milano 1969, pp. 41-47 e del recente contributo, con bibliografia precedente, di C. Vicentini, Giuseppe Caletti da Cremona, “un pittore moderno in una bottega antiquaria”, “Studi di Storia dell’Arte”, 27, 2016, pp. 191-200.

[17] G. Baruffaldi, Vite de’ pittori e scultori ferraresi, vol. II, Ferrara 1844-1846, pp. 209-210.

[18] In tal senso si legga l’episodio di contraffazione di opere venete da parte del Caletti legato alla criptica personalità dello scozzese Monsù Abmon narrata da Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., vol. II, pp. 211-212; il pittore anglofono viene riconosciuto da E. Riccòmini, Il Seicento ferrarese cit., p. 42 nella figura del cortonesco Monsù Abramo, alcune opere del quale sono presenti negli inventari di alcune quadrerie bolognesi, tra le quali quella di Giovanni Francesco Davia (R. Morselli, Collezioni e quadrerie nella Bologna del Seicento: inventari 1640-1707,  Los Angeles 1998, pp. 195-206, inventario anno 1689 ai nn. 34 e 79) ed anche nella letteratura artistica locale più antica: sono ricordati dei dipinti presso Rimini nelle case delle famiglie Bianchelli e Nanni, oltre a numerose pale d’altare e quadri grandi, tre dei quali per il perduto oratorio della chiesa di Santa Maria in Acumine, due ricordati come raffiguranti David che suona la cetra davanti a Saul e il Passaggio del mar Rosso, da C. F. Marchesello, Pitture delle chiese di Rimino, Rimini 1754, pp. 65-66. Non si ha tuttavia una certezza sulla reale identità dell’artista.

[19] M. Ferretti, Falsi e tradizione artistica cit., p. 146.

[20] C. Savonuzzi, Caletti Cremonese, in Le dune di Cervia, Bologna 1964, pp. 145-149.

[21] V. Lapierre, Scarsellino copista tra devozione e collezionismo, in G. Sassu (a cura di), Immagine e persuasione. Capolavori del Seicento dalle chiese di Ferrara, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo Trotti-Costabili, 14 settembre 2013 – 6 gennaio 2014), Ferrara 2013, pp. 41-47, poi ancora Scarsellino copista, tra devozione e collezionismo, “Museo inVita. Musei di Arte Antica del Comune di Ferrara | Notizie e approfondimenti”, 1, 2015, consultabile online.

[22] Per i documenti relativi al ruolo di Enzo Bentivoglio e alla loro ricostruzione si vedano l’introduzione al volume di P. della Pergola, Galleria Borghese: i dipinti, vol. I, Roma 1955; A. Mezzetti, Il Dosso e Battista ferraresi, Milano 1965; A.M. Fioravanti Baraldi, Un’ “Assunta” di Ludovico Carracci per i Bentivoglio: documenti inediti dell’Archivio Bentivoglio di Ferrara, “il Carrobbio”, 13, 1987, 159-167; D. Fabris, Mecenati e musici: documenti sul patronato artistico dei Bentivoglio di Ferrara nell’epoca di Monteverdi (1585-1645), Lucca 1999; L. Carloni, Orazio Gentileschi fra Roma e le Marche, in Orazio e Artemisia Gentileschi, catalogo della mostra a cura di a cura di K. Christiansen e J. W. Mann,  Milano 2001, pp. 116-129; A. Ballarin, Il Camerino delle pitture di Alfonso I: Documenti per la storia dei Camerini di Alfonso I (1471-1634). Regesto Generale, Cittadella (PD) 2002.

[23] Il fondo, custodito presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, è frutto di una confisca (1711) ai danni di Girolamo Baruffaldi nel più ampio contesto della ‘Questione di Comacchio’. In tal senso si vedano: D. Balboni, Manoscritti sequestrati al Baruffaldi nel 1711 conservati alla Biblioteca Vaticana, in L. A. Muratori storiografo, atti del convegno internazionale di studi muratoriani, vol. II, Firenze 1972, pp. 463-482; M. Monaco, Girolamo Baruffaldi e la questione di Comacchio, in Girolamo Baruffaldi (1675-1755), atti del convegno nazionale di studi nel terzo centenario della nascita, Centro Studi Girolamo Baruffaldi, vol. I (Cento 5-8 dicembre 1975), Cento 1977, pp. 471-512; M. Provasi in G.M. Massa, Memorie di Ferrara (1582-1585), a cura di M. Provasi, “Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, Serie Monumenti”, vol. XVII, Ferrara 2004, pp. 20-22. La data indicata all’inizio della trascrizione è probabilmente il momento in cui si riscontra il principio delle spoliazioni. Lo studio in corso sui documenti facenti parte di questo nucleo di manoscritti sta portando alla luce alcuni materiali che potranno essere annoverati tra le fonti utilizzate dall’abate centese, soprattutto per le notizie da lui riportate e talvolta ritenute senza fondamento. Ringrazio Cecilia Vicentini e Matteo Provasi, con i quali sto lavorando allo studio del fondo vaticano, e Giovanni Sassu per l’entusiasmo e la viva partecipazione con cui accoglie gli avanzamenti della ricerca.

[24] L’opera è probabilmente «La Natività del Signore, che in braccio alla sua SS.ma Madre riceve il latte fatta sulla maniera di Antonio da Correggio, si dice essere d’uno scolaro del Procaccino di Milano.» come riportato in C. Brisighella, Descrizione delle pitture e sculture della città di Ferrara (1700-1735 ca.), ed. a cura di M.A. Novelli, Ferrara 1991, p. 247; nelle note redatte da Maria Angela Novelli, l’opera attualmente conservata presso la chiesa ma in un locale adiacente la sagrestia, risulta essere attribuita ad un pittore emiliano del XVII secolo vicino al Procaccini e fu sostituita nel 1727 dalla Crocifissione del Bastarolo, anch’essa celebrata nelle note redatte da Baruffaldi al testo di Brisighella come «s’accosta in Raffaelle e talvolta al Parmegiano [da leggersi come Correggio], e pure l’autore ne fu il sopra mentovato ferrarese Bastaroli». La menzione della “maniera” dell’Allegri induce a ipotizzare che originariamente vi fosse custodita un’opera del Correggio o della sua scuola, successivamente sostituita dalla copia tuttora presente.

[25] Per la storia dell’opera e dell’attribuzione, tuttora molto incerte, di veda (con bibliografia precedente) G. Sassu, Un nuovo (?) Genio delle arti di Carlo Bononi, in “MuseoinVita”, 3/4, 2016, consultabile online. Non è l’unico dipinto copia di Caravaggio presente a Ferrara nel Seicento: dalla consultazione degli inventari pubblicati nel volume a cura di F. Cappelletti, B. Ghelfi, C. Vicentini (a cura di), Una storia silenziosa. Il collezionismo privato a Ferrara nel Seicento, Venezia 2012, pp. 113, 163, si rintraccia nella collezione di Giulio Canani un «Altro con recinto di legno ch’è Nostro Signore, S. Luca è S. Giacomo ch’è il cognoverunt eum in fraction panis, copia di Michel Angelo da Caravaggio» e nella collezione di Roberto Obizzi «Un quadro di Nostro Signore à tavola con due apostoli del Caravaggio, con cornici nere e oro»; in tal senso si veda M. Mazzei Traina, L. Scardino (a cura di), Fughe e arrivi. Per una storia del collezionismo d’arte a Ferrara nel Seicento, Ferrara 2002, pp. 281, 409. Sono presenti altre iconografie caravaggesche, come l’Incredulità di San Tommaso o la Cena in Emmaus, tuttavia senza indicazione dell’originale o dell’autore.

[26] Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 12577, cc. 207-208.

[27] A. Superbi, Apparato de gli huomini illustri della città di Ferrara, i quali nelle lettere, & in altre nobili virtù fiorirono, Ferrara 1620, p. 124.

[28] M.A. Guarini, Compendio historico dell’origine, accrescimento e prerogative delle chiese, e luoghi pii della città, e diocesi di Ferrara, Ferrara 1621, pp. 340, 383, la colloca nel terzo altare di Santa Maria della Consolazione.

[29] P. Orlandi, L’Abecedario pittorico, Bologna 1719, p. 226.

[30] Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., vol. I, p. 171.

[31] Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., vol. II, p. 27: «Nel tempo della devoluzione di questa città al governo ecclesiastico, cioè l’anno 1598, era uno de’ professori che in Ferrara operassero, e perciò come tale fu impiegato a ricopiare varie preziose pitture di maestri eccellenti per poterne mandare a Roma gli originali desiderati dalla corte Pontificia che qui trovavasi. Di due certamente io posso darne sicuro conto, e sono la tavola della Ascensione di Cristo in s. Maria in Vado [in nota: La copia dell’Ascensione in s. Maria in Vado è tenuta del Bononi, l’altra della chiesa della Consolazione, manca], e l’altro di s. Margherita nella chiesa della Consolazione. Quest’era dell’Ortolano, e l’altra di Benvenuto da Garofalo.» Un’altra copia della medesima opera è presente nella collezione di Mario Calcagnini, come evidenziato dagli studi sulla collezione effettuati da C. Vicentini, La collezione Calcagnini d’Este. Una famiglia e le sue raccolte fra Ferrara e Roma, Roma 2016, p. 49; per una scheda dell’opera e una sintetica analisi e ricognizione delle sue copie esistenti si veda, con bibliografia precedente, G. Frabetti, L’Ortolano, Ferrara 1966, scheda 11, pp. 46-47; per altre indicazioni sulle copie relativamente a quest’opera si veda G. Frabetti, La Santa Cecilia di Raffaello e alcune conseguenze ferraresi, “Emporium”, CXIX, 713, 4, 1954, PP. 215-219.

[32] Si veda Ritratto di una collezione. Pannini e la Galleria del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, catalogo della mostra a cura di R. Morselli e R. Vodret, Milano 2005.

[33] La corrispondenza dell’opera è messa in evidenza da M.A. Novelli nelle note alla sezione dedicata alla chiesa in C. Brisighella, Descrizione delle pitture e sculture della città di Ferrara, op. cit., p. 502. L’opera, con bibliografia precedente, è schedata all’interno del catalogo generale del pittore redatto da G. Frabetti, L’Ortolano, op. cit., scheda 50, pp. 60-61.

[34] L’opera è descritta in seguito alla sua dichiarata attività di copista in Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., vol. II, pp. 32-33: «Anzi non ebbe ritegno di farsi conoscere buon copiatore se avendo copiato la bella e graziosa tavola dell’Ortolano, la quale nella chiesa della Madonnina si è per molti anni veduta, e rappresentava Cristo deposto dalla croce, non si ristette dal marcarla col proprio nome, scrivendovi sotto queste parole – Io Giulio Cromer copiai la presente opera dell’Ortolano del mese di novembre 1607».

[35] Brisighella, Descrizione delle pitture cit., p. 502.

[36] Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., vol. I, pp. 276-277. Il dipinto venne portato a Roma, dove compare nella collezione Savelli (inventario anno 1650) e nella collezione del card. Flavio Chigi (inventario anno 1692).

[37] Brisighella, Descrizione delle pitture cit., p. 13, l’opera e la sua copia sono descritte come: la copia di Scarsellino viene individuata dalla Novelli come quella presso i depositi della Pinacoteca Nazionale di Ferrara (citata dalla stessa come inv. n. 267, ma rintracciabile nell’inv. n. 477 in J. Bentini (a cura di), Pinacoteca Nazionale di Ferrara, Bologna 1992, p. 410), pare in non buone condizioni di conservazione a causa dei bombardamenti del 18 gennaio 1944.

[38] L’originale, citato da Guarini, Compendio historico cit., p. 70, come erroneamente ancora collocato in loco, l’opera venne acquistata dalla famiglia Chigi e poi venduta nel 1918 allo Stato Italiano, che la ricoverò per qualche tempo presso la Basilica romana di San Paolo fuori le mura per poi portarla nella sua collocazione attuale.

[39] Brisighella, Descrizione delle pitture cit., p. 58.

[40] A. Frizzi, Guida del forestiere per la città di Ferrara, Ferrara 1787, p. 101; F. Avventi, Il servitore di piazza: guida per Ferrara, Ferrara 1838, p. 204.

[41] A. Domenichini, Cenni storici della chiesa di Santa Maria Nuova in Ferrara desunti dagli scavi eseguiti nel 1890, Ferrara 1890, p. 6; D. Zaccarini, Santa Maria Nuova. Chiesa degli Aldighieri, Ferrara 1921, p.7. Per il reperimento della copia di Scarsellino si veda il già citato Lapierre, Scarsellino copista cit.

[42] Le complesse vicende legate alla realizzazione delle copie degli ovali della dimora di Cesare sono state recentemente ricostruite (con bibliografia precedente) da F. Cappelletti, Angeli senza ali. Carlo Bononi fra sacro e profano, fra Ferrara e Roma, in G. Sassu, F. Cappelletti (a cura di), Carlo Bononi. L’ultimo sognatore dell’Officina ferrarese, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 14 otttobre 2017 – 7 gennaio 2018), Ferrara 2017, pp. 39-56.

[43] M.A. Novelli, Scarsellino, Ferrara 2008, cat. 164, pp. 190-191, 316.

[44] La trascrizione degli inventari del cardinale Alessandro d’Este custoditi presso l’Archivio di Stato di Modena è stata pubblicata in C. Cremonini, Le raccolte d’arte del cardinale Alessandro d’Este. Vicende collezionistiche tra Modena e Roma, in J. Bentini (a cura di), Sovrane passioni. Studi sul collezionismo estense, catalogo della mostra (Modena, Galleria Estense, 3 ottobre – 13 dicembre 1998), Milano 1998, pp. 91-137. Dallo studio degli inventari romani e tiburtini del cardinale, che sono oggetto di studio della ricerca di dottorato della scrivente attualmente in corso, emergono un consistente numero di opere copie di celebri originali, presenza dovuta, secondo alcuni studiosi, alle ristrettezze economiche in cui versava la corte romana di Alessandro d’Este; in tal senso si vedano anche S. Calonaci, Con gli occhi di Argo. la politica del cardinale Alessandro d’Este dopo la devoluzione (1599-1624), in La corte estense nel primo Seicento. Diplomazia e mecenatismo artistico, Roma 2012, pp. 149-196 e C. Gubbiotti, Introduzione agli inventari dei quadri e dei disegni di Alessandro d’Este (1599-1624), “Studi di Memofonte”, 5, 2010, pp. 37-50.

[45] Nel già citato saggio di Cappelletti, Angeli senza ali cit., pp. 44-46,  si sono ripercorsi i tentativi di ricostruzione che gli studi precedentemente svolti hanno tentato di portare a termine, compreso il riconoscimento di alcuni soggetti iconografici presenti negli antichi documenti e che, grazie al confronto con i repertori per pittori di V. Cartari, Le imagini de li Dei de gli antichi, Lione 1581 e C. Ripa, Iconologia, ouero, Descrittione di diuerse imagini cauate dall’antichità, Roma 1603, è stato possibile effettuare, portando alla luce delle sorprendenti analogie compositive con questa forma di materiali artistici.

[46] Le lettere, discusse per la prima volta da A. Venturi, La Reale Galleria Estense di Modena, Modena 1883, pp. 41, 76, e recentemente discusse da O. Baracchi, Arte alla corte di Francesco I, “Atti e memorie. Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi”, 11, 1998, pp. 119-155, meritano una lettura maggiormente approfondita, come sottolineato da Cappelletti, Angeli senza ali cit., pp. 45, 55 nota 29, al fine di rimarcare il ruolo del pittore nelle operazioni di trasferimento delle opere ducali.

[47] Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., vol. II, pp. 117-177.

[48] Cappelletti, Ghelfi, Vicentini (a cura di), Una storia silenziosa cit., p. 118, nella collezione di Giulio Canani, ad esempio, si trova: «Altro con cornice di legno intagliata, ch’è la Beata Vergine con Bambino e S. Sebastiano, copia d’Antonio del Correggio fatta dal Bononi Carlo».

[49] Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., vol. II, pp. 118-119.

[50] G.P. Bellori, Vite dei Pittori, Scultori ed Architetti Moderni Descritte da Gio. Pietro Bellori, Roma 1672, pp. 201-202.

[51] Baldinucci, Vocabolario toscano cit., p. 39.

[52] Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., vol. II, pp. 118, 124-126. L’attività grafica viene messa in evidenza nella biografia di Bononi fin dalla sua formazione. Sull’argomento si vedano, inoltre, gli interventi di E. Schleier, Note sulla riscoperta di Bononi disegnatore, in Carlo Bononi. L’ultimo sognatore cit., pp. 20-23 e (con bibliografia precedente) M. Danieli, Forme e funzioni dei disegni di Carlo Bononi, in Carlo Bononi. L’ultimo sognatore cit., pp. 91-100.

[53] Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., vol. II, p. 166.

[54] C. Ridolfi, Vita di Giacopo Robusti detto il Tintoretto, celebre pittore, cittadino venetiano, Venezia 1642, pp. 8-9. Nella sezione denominata «curiosi artifici» scrive: «Esercitavasi altresì il Tintoretto in far de’ piccioli modelli di cera, e di creta, vestendoli di cenci, ricercandone con molto studio con le piegature de panni le parti dello ignudo, divisandoli per entro à picciole case, & prospettive, composte di asse, e di cartoni, accomodandovi lumicini per le fenestre, recandovi in tali maniere i lumi, e l’ombre. Sospendea ancora alcuni modelli con fili alle travature, per vederne gl’effetti, che faceano veduti all’insù, per l’occasione de gl’iscorci de’ soffitti, formandone con tali artifici bizzarri componimenti, & straordinarie inventioni, le reliquie de’ quali tuttavia si conservano nella stanza secretaria de’ pellegrini pensieri suoi». Sui rapporti tra Tintoretto e Bononi ha molto insistito G. Sassu, L’ultimo sognatore dell’Officina ferrarese, in Sassu-Cappelletti, Carlo Bononi cit., pp. 184-188.

[55] Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., vol. II, p. 117.

[56] R. Fabbri, E. Lopresti, G. Marcolini (a cura di), La Certosa di San Cristoforo, Bologna 2018, p. 255.

[57] P. Humfrey, Saint George, in Dosso Dossi. Court Painter in Reinassance Ferrara, New York 1998, pp. 106-107 cat. 8 (con bibliografia precedente).

[58] Farsetti, asta del 26 marzo 2010, lotto n. 406, p. 126. La perizia che ha accompagnato l’opera al momento della vendita è stata redatta da Maurizio Marini, come si può apprendere dal catalogo della vendita.

[59] Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., vol. II, pp. 37-43.

[60] Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., vol. II, p. 32.

Pubblicato su “MuseoinVita” | 7-8 | 2018

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